CINEFORUM / 519

Un mélo della marginalità

 

di Roberto Chiesi

La marginalità è una dimensione di anomalie. Anomalia dello spazio sociale: il marginale vive sempre al di fuori della Città anche quando risiede al suo interno. La dimensione cui appartiene ha confini non facilmente circoscrivibili, è spesso promiscua alla cosiddetta normalità – e quindi offre un’angolazione anticonvenzionale da cui osservarla e descriverla – mentre egli vive quasi sempre un rapporto di contrapposizione o di parassitismo nei confronti della Città. Anomalia degli istinti: i marginali sono spesso tormentati dall’incontinenza di pulsioni esacerbate che non controllano perché non hanno nessun interesse a farlo. Anomalia delle storie individuali: i marginali sono capaci di tutto in quanto spesso non hanno nulla da perdere. Anomalia dei corpi: i marginali hanno corpi che recano l’impronta della loro diversità, segnandone i movimenti, l’espressività verbale, il respiro fisico.
Audiard non si limita a descrivere la dimensione della marginalità, tantomeno la converte in forma di spettacolo folkloristico, ma fa aderire lo spettatore allo sguardo dei suoi personaggi, adottando un’alternanza imprevedibile di inquadrature soggettive e oggettive accomunate da un’estetica definita da lui stesso e dal suo sceneggiatore Thomas Bidegain, “tranchée, brutale et contrastée”, tronca, brutale e contrastata. Ecco quindi inquadrature fugaci e “sporche”, visioni parziali e intermittenti (la fotografia è di Stéphane Fontaine) che riproducono una percezione della realtà organica, dominata dalla materia delle cose (il sapore di ruggine e ossa che il boxeur avverte nella bocca) e degli ambienti, in un susseguirsi di visioni spesso così ellittiche da dover essere decifrate, in seguito, dall’oggettività di sequenze neutre.
Ali è un individuo che vive per soddisfare le esigenze primarie – grazie allo stesso corpo robusto che gli consente di trovare un lavoro come buttafuori, attira anche il desiderio di donne occasionali con cui si accoppia in maniera randagia. Non privo di intelligenza, intuito e di una laconica e brusca sensibilità, Ali è un organismo anaffettivo, che può diventare improvvisamente brutale (come quando scopre il figlio tutto sporco nella cuccia del cane) ma che mantiene perlopiù la calma di chi non soffre mai per nulla e nessuno.
Nel breve tempo del loro percorso insieme in automobile, quando Ali la riaccompagna a casa dopo la rissa, si può misurare la differenza culturale fra i due giovani, fra la battuta rozzamente moralistica dell’uomo, che le rimprovera l’abito provocante “da puttana” e il rifiuto infastidito che lei oppone a quella concezione della realtà e delle donne. Entriamo poi nella casa di Stéphanie, scoprendo una mediocre normalità dove campeggia un compagno geloso, rimasto a casa mentre la donna va a ballare da sola. Ma anche un interno dove si scoprono gli indizi (fotografie) che rimandano alla passione e alla professione della giovane donna: il mare, l’addestramento di orche nel Marineland di Antibes, uno spazio artificiale e banalmente rassicurante che diventa, per l’errore di un attimo, lo scenario di una tragedia, quando Stéphanie, per una distrazione, viene investita da un’orca che le trancia le gambe dal ginocchio in giù.
Nella sequenza del coito fra l’ercole e la bella donna dalle gambe ridotte a monconi, Audiard rischiava il grottesco involontario. Invece la proposta erotica preliminare è espressa con la solita scarna noncuranza da Ali, con un’indifferenza priva di pietà che insinua perfino il sospetto che l’uomo sia in qualche modo attratto dall’anomalia della situazione e di quel corpo che egli poi stringe senza nessun imbarazzo.
Audiard suggerisce quindi la metamorfosi di Stéphanie, che mentre recupera volontà di vivere, si lega parallelamente a una forma di dipendenza dalla “salute” di Ali che, invece, mantiene la propria imperturbabile anaffettività e trova nella violenza dei combattimenti organizzati una rivincita personale. Il contrasto fra il milieu di nerboruti gladiatori e l’apparente fragilità di Stéphanie in piedi sui suoi arti artificiali, conduce il film su un piano dove una tinta fantastica (insinuata dalla “mostruosità” dei suoi piedi finti) viene assorbita da una quotidianità al tempo stesso prosaica e romanzesca, con piani notturni su una periferia straniata. Ma la marginalità di Ali racchiude anche la sua incapacità a calcolare le strategie padronali: non si accorge di essere la causa indiretta del licenziamento della sorella che, infuriata, lo caccia. Con la sequenza sul lago ghiacciato, dove l’uomo rischia di perdere il figlio e lo salva in extremis ferendosi le mani, Audiard riesce a imprimere ancora un respiro fiabesco e mitico alla messa in scena, ma la “conversione” finale di Ali ai sentimenti rimane purtroppo poco convincente e artificiosa.