CINEFORUM / 538

Mafia incorporated

MAFIA INCORPORATED di Anton Giulio Mancino «Poco fa, da un certo banco, sono state fatte delle illazioni su una “emme” maiuscola che sarebbe caduta in una mia nota sul “Corriere della Sera”. Illazioni alquanto gratuite. La parola “mafia” si è trovata scritta con la “emme” maiuscola semplicemente perché quella nota era stata dettata per telefono. Il mio giudizio sulla mafia non era in nulla mutato: semmai c’era una dimostrazione di rispetto nordico da parte dello stenografo del giornale. Detto questo, giacché si parla di maiuscolo, debbo constatare che il dibattito si è svolto, come era prevedibile, tra filologia e sociologia, e allora tanto valeva di farne di buona. Infatti, la maggioranza degli interventi sembra convenire sulla tesi – vecchia tesi – secondo la quale la mafia insorge nel vuoto dello Stato; invece, insorge nel pieno dello Stato. Questa è la constatazione preliminare indispensabile da fare».
(Leonardo Sciascia, intervento parlamentare, 6 marzo 1980)

Brancaccio mi ha cantato una canzone Pescando senza criterio nell’ultimo film di Franco Maresco potrebbe accadere di imbattersi in ogni sorta di affermazione o gesto spropositato: c’è Marcello Dell’Utri che durante un’intervista menziona Silvio Berlusconi come persona informata dei fatti sulla misteriosa morte del presidente dell’eni Enrico Mattei avvenuta la notte del 27 ottobre 1962, lo stesso Berlusconi considerato da un suo acceso sostenitore una sorta di nuovo Giuseppe Garibaldi, infine un cantante neomelodico autore della contesa canzone Vorrei conoscere Berlusconi che va a deporre un fiore sulla tomba del boss Stefano Bontate ucciso a Palermo il 23 aprile 1981 durante la cosiddetta seconda guerra di mafia. Enormità? Belluscone. Una storia siciliana è sì molto divertente e stravagante. Ma il punto è proprio questo: l’operazione satirica, peraltro assai poco eufemistica, non impedisce di accorgersi all’occorrenza che quanto nell’insieme risulta sopra le righe, frutto dell’esagerazione irridente, donde l’esasperazione sistematica dei toni e delle argomentazioni, obbedisce a un’ineccepibile logica. A un’attenta analisi non può di certo sfuggire che la necessità di puntare sempre e comunque all’eccesso incontrollato c’entra relativamente, a fronte invece di un’indubbia coerenza storiografica. O piuttosto di un’indiscutibile – avrebbe detto Leonardo Sciascia – valenza “filologica”. La verità è che Belluscone. Una storia siciliana è qualcosa di più di una presa in giro, di un ritratto in chiave grottesca di un leader che ha trovato motivatamente in Sicilia molto consenso elettorale, spontaneo o coatto, non fa differenza. Il film di Maresco si spinge molto al di là della provocazione, non ha affatto l’aspetto di un film sgangherato, così come insiste nel darsi a vedere, né appare così incompleto, improvvisato e approssimativo, legato a circostanze occasionali, come dall’interno il personaggio e complice del progetto, Tatti Sanguineti, sostiene senza mezzi termini, in veste pretestuosa di narratore sconcertato e perplesso. Così come neppure l’autore ombra, il fantasmatico Maresco, ha l’aria di aver concepito, realizzato e finanche montato il film in preda al suo presunto, cronico stato depressivo. La dimensione privata e psicologica del regista “latitante” fa parte in realtà del clima di simulazione che regna in Belluscone. Una storia siciliana. L’impianto stesso della vicenda si fonda su questa strumentale e ben orchestrata follia, che dissimula quanto basta la puntualità e la stretta consequenzialità con cui sono distribuiti i numerosi riferimenti fattuali. L’obiettivo è decostruire e ricostruire un personale e originale viaggio nel cuore della compagine ambientale che supporta a livello microfisico l’inestricabile, diuturno e intangibile apparato di potere di stampo mafioso. Maresco si serve di una prassi metodologica nella ricerca di materiali sensibili talmente ortodossa da ottimizzare al massimo la disamina dell’inconfessabile organismo mafioso, tanto ramificato e tentacolare da rendersi invisibile a occhio nudo. Le cui maglie si perdono nelle strade, nei vicoli, nelle risibili e arrangiate trasmissioni in onda sulle scalcagnate emittenti locali, nel sottomondo dei giovani compositori, arrangiatori e cantanti etichettati come “neomelodici” che operano non soltanto nei dintorni del palermitano quartiere di Brancaccio sotto l’egida di anziani e loschi impresari. Il film, puntando diritto a un obiettivo globale, non si fa mancare niente: neppure una (auto)critica sui generis, riassunta nelle sortite di un appassionato giovane critico cinematografico palermitano Francesco Puma, il quale non si direbbe stia recitando più di tanto la sua parte in commedia quando sviscera il compulsivo e delirante patrimonio conoscitivo sotto gli occhi allibiti dell’anziano, equivalente collega Sanguineti. Puma sta a Sanguineti, nella prospettiva mai autoindulgente del film, come i neomelodici che fanno capo all’indotto dilettantesco/professionale di Brancaccio stanno al Gigi D’Alessio napoletano/nazionale. In Belluscone. Una storia siciliana insomma tutto si spiega dentro un gioco di riferimenti incrociati, vasi comunicanti, rispecchiamenti modulari, acute e fulminanti associazioni di idee, accostamenti di cose o persone piccole e grandi sostanzialmente o teoreticamente omologhe: seguendo l’efficace e metodica follia qui dispensata generosamente, si va dal caso Mattei al “sacco” di Palermo degli anni Sessanta di Lima e Ciancimino. Quindi dalla pluriennale proliferazione nelle regioni del Sud, Campania e Sicilia in testa per ovvie ragioni, di neomelodici di fama locale (spesso sul piccolo schermo o in piazza al servizio della comunicazione interna mafiosa), emuli dichiarati dei loro colleghi sulla cresta dell’onda in tutta la Penisola, alla pregressa nascita della televisione commerciale in Italia avvenuta nella seconda metà degli anni Settanta grazie alla cointeressenza mafiosa, ovvero al presunto “prestito” di Bontate al Cavaliere. Questo paradigma della quota parte della mafia, già al fianco di Garibaldi nell’impresa dei Mille che in Sicilia si moltiplicarono come i pani e i pesci della parabola evangelica, del resto richiama per analogia – «Dicono i maligni», per usare l’espressione cautelativa più ricorrente dello stesso Maresco nel film – la vicenda di Cosa Nostra che, attraverso la Paramount consociata della Gulf+Western, sarebbe intervenuta nel cofinanziamento del Padrino di Francis Ford Coppola, capolavoro massimo, nonché materialmente autoreferenziale del genere gangster. Non è perciò insensato, a conti fatti, che un ragazzo come Erik, con l’ambizione di sfondare nel sottobosco palermitano dello spettacolo, onori doverosamente la memoria di Bontate. E sogni di incontrare il Belluscone/Berlusconi di turno. La differenza tra uno show su una rete nazionale e un palcoscenico allestito a Brancaccio, seguendo la catena indiziaria offerta da Belluscone. Una storia siciliana, è meno marcata di quanto non si creda. Proseguendo sulla stessa linea di documentata indagine audiovisiva condotta da Maresco tramite Sanguineti non è nemmeno così improbabile – parola stavolta di Dell’Utri, sia chiaro – che un ex iscritto come Berlusconi, tessera numero 1816, alla loggia coperta Propaganda 2 o p2, sappia persino qualcosa dei retroscena del delitto Mattei. Ipotesi tutt’altro che trascurabile cui perviene anche il ragionamento contenuto nell’introduzione intitolata Come corsari della filibusta che precede la recente riedizione per i tipi di Effigie di un controverso e celebre libro di controinformazione come Questo è Cefis. L’altra faccia dell’onorato presidente, pubblicato nel 1972 dall’Agenzia Milano Informazione di Corrado Ragozzino e apparso fugacemente in libreria in forma (quasi) anonima. Forse Belluscone. Una storia siciliana è esattamente questo: un film di controinformazione, come se ne facevano una volta. O più probabilmente l’unico format audiovisivo oggi possibile per descrivere le (non) contraddizioni del meccanismo mafioso, a largo spettro, che incredibilmente avrebbe dato il via e regolato fino ai giorni nostri la compiaciuta società dello spettacolo italiana a forte dominante televisiva. Chi può dirlo con cognizione di causa se non l’irriducibile Maresco, opportunamente autoesclusosi dalla messa in quadro del suo più recente, fausto “delitto” cinematografico? Anche perché questo allegro misfatto presentato in anteprima all’ultima Mostra di Venezia, complementare del suo precedente Enzo, domani a Palermo, ma anche molto vicino al rigore storiografico ed estetico del rimosso Segreti di Stato di Paolo Benvenuti, in tema sempre di mafia su scala regionale/nazionale, sembra volersi interrogare su cosa significa oggi immaginare e magari portare a termine e in quali condizioni, un prodotto denominato “film”. Parlare di Belluscone. Una storia siciliana vuol dire, già dal titolo, da un lato accettare come premessa fondamentale non apocalittica ma concreta il ruolo della mafia radicata in Sicilia, prendendo in prestito un termine usato in ambito legale e finanziario, come “incorporata” contestualmente dentro il tessuto nazionale, per non dire internazionale, a numerosi e propedeutici livelli, antropologico, sociologico, storico, politico, culturale ed economico. Dall’altro a predisporsi alla lettura di questo film, emblematico per una rilettura parallela del complesso fenomeno mafioso, senza escludere le implicazioni relative al significante filmico. Cioè chiamando in causa simultaneamente concetti quali: 1) le apposite sorgenti sonore invisibili, per Michel Chion “acusmatiche”; 2) l’impiego mirato delle “figure dell’assenza” in funzione demistificante e anti-realistica, di cui parla invece Marc Vernet; 3) la dimensione “oscena”, così come l’ha intesa Carmelo Bene; 4) la “mancanza” nell’accezione lacaniana; 5) la condizione del film come “testo introvabile”, cioè immateriale, fantasmatico, premessa indispensabile dell’impianto psico-semiotico scelto da Christian Metz e della specifica prassi analitica adottata da Raymond Bellour; 6) la “microfisica del potere”, qui applicata alla realtà della mafia, seguendo quindi le indicazioni di Michel Foucault. Il caso Maresco Cominciamo da un dato incontrovertibile. La scioglimento del sodalizio artistico di Daniele Ciprì e Franco Maresco ha consentito di distinguere con effetto retroattivo il braccio (Ciprì) dalla mente (Maresco) nel fitto universo visionario e sconcertante che ha provveduto a eleggere in maniera provocatoria gli ultimi, gli impresentabili a verosimili soggetti speculari, coerenti e paradossali di un Italia davvero inguardabile e profondamente (in)civile. Quello di Ciprì e Maresco, o più correttamente di Maresco e Ciprì, è stato un complesso, duraturo e articolato progetto audiovisivo, in cui si sono avvicendati, sovrapposti, intersecati, contaminati a vicenda programmi, cortometraggi, sketch, lungometraggi, documentari e docu-fiction. Un progetto decisamente strategico e isolato che dalla galleria televisiva di Cinico tv al film del congedo, Come inguaiammo il cinema italiano. La vera storia di Franco e Ciccio, passando per la determinante trilogia composta da Totò che visse due volte, Lo zio di Brooklyn e Il ritorno di Cagliostro, ha fatto insomma storia. Storia della televisione italiana degli ultimi vent’anni, di pari passo con la storia del cinema italiano. Sullo sfondo di un ventennio contrassegnato dal ruolo di primo piano giocato da Berlusconi su entrambi i fronti. Ora che il gioco delle parti si è semplificato e il divorzio consensuale consumato, assegnando a Ciprì un ruolo preminente come direttore della fotografia, più che come regista (di cui l’inutilmente sopravvalutato È stato il figlio e il consequenziale La buca sono la cartina di tornasole), e a Maresco l’effettivo statuto autoriale, comprovato già da Io sono Tony Scott, ovvero come l’Italia fece fuori il più grande clarinettista di jazz, quindi dall’astutamente “incompiuto” Belluscone. Una storia siciliana, è possibile ragionare sui presupposti storico-politici di uno stile e di una concezione della realtà da sempre molto marcati e radicali nel giungere alle estreme conseguenze di ogni assunto discorsivo. Dove cioè la rigida e rigorosa frontalità nella messa in scena e in quadro, l’oscurità tragicomica e il ricorso costante ai contrasti accesi sono tutti sintomi di uno sguardo trasparente, spregiudicato e disincantato sulla mostruosità congenita, nemmeno poi tanto caricaturale, e sullo stato di crisi irreversibile dell’idea stessa, altamente rischiosa di creatività. O non meno improbabile di indipendenza di pensiero e modi di produzione. Specie se creatività e indipendenza si riferiscono, senza soluzioni di continuità, tanto alla riflessione sul senso, l’etica e la sostenibilità delle immagini, del sonoro e in generale della società/contenitore dello spettacolo, quanto alla fisiologica e genealogica degenerazione nazionale che ne ha da tanto tempo ipotecato inevitabilmente la (mala)sorte. Non è dunque un caso, quello che potremmo definire a ragion veduta il “caso” Maresco, che Belluscone. Una storia siciliana si presenti come film di risulta, in divenire, opera dichiaratamente aperta e ostentatamente irrisolta, ciò nonostante né scombinata né squilibrata. È di sicuro una scelta coerente, anche con la politica degli autori del cinema italiano, quella dell’ultimo film di Maresco: ricorrere alla forma mista onde poter con maggiore cognizione di causa elaborare un percorso di ricerca, di inchiesta, di veridizione di fatti noti e occulti, spesso indicibili o più appropriatamente impronunciabili, come la stessa parola “mafia”, divenuta oramai vocabolo di pura rendita politico-ideologica, a uso e consumo dei sempre più numerosi, maggioritari, benpensanti “professionisti dell’antimafia”, secondo l’appropriata, scomoda, lungimirante, ma un tempo impopolare e osteggiata definizione di Leonardo Sciascia. L’apparente frammentarietà e provvisorietà di Belluscone. Una storia siciliana si offre come occasione possibile per dar conto di questioni fin troppo di pubblico dominio, nonché mistificata nei suoi nessi basilari. È evidente che l’autore finalmente unico di questo film di un film condivide e sposi i motivi che hanno spinto in passato Federico Fellini e Pier Paolo Pasolini a dedicarsi a opere consimili, destrutturate, occasionali e anfibie, emblematiche fin dai titoli (Block-notes di un regista, Prova d’orchestra, Intervista, oppure Sopralluoghi in Palestina, Appunti per un’Orestiade africana, Appunti per un film sull’India), dove in pratica l’esibizione sintomatica dell’effetto “making” del film di là da (non) venire o altrimenti irrealizzabile risultava inversamente proporzionale alla piena consapevolezza della libertà consentita da una simile informalità (meta)filmica. Gli stessi sintomi esterni che hanno generato questi ormai celebri pseudo film pregressi, intelligentemente involuti e moderni in quanto propedeutici o sostitutivi di altrettanti film (im)possibili, sono all’origine del presente lungometraggio di Maresco, in cui il rapporto tra il titolo principale (Belluscone) e il sottotitolo (Una storia siciliana) coniuga continuità e dell’alterità: in Belluscone. Una storia siciliana vengono infatti all’unisono storpiati e territorializzati, in parole povere “sicilianizzati” il cognome noto dell’ex premier e patron delle televisioni commerciali, saldandoli al raggio d’azione immediato del potere mafioso. Non per ridimensionarne la corrispondenza tra Berlusconi e la mafia, ma per proporne con modalità da mise en abîme la sua riproducibilità vecchia e nuova, l’enorme portata nazionale che prende le mosse dall’impronta regionale, concreta e metaforica a un tempo. Il problema, nell’ottica di Maresco, va esaminato quasi a prescindere da Berlusconi. Occorre occuparsene scavando e mescolando tra la gente comune, il sottoproletariato di quartiere, tra le pieghe di un modello di comunità in cui le feste di piazza, i cantanti e gli organizzatori di eventi contano, e non poco. Il problema esiste da prima di Berlusconi, poi necessariamente ha assunto caratteri peculiari con Berlusconi, e va posto in vista del dopo Berlusconi. La scommessa è quella di saper guardare – a differenza del programmatico La trattativa della solita Sabina Guzzanti – ben oltre Berlusconi, cominciando con la categoria dello spettacolo. Questo induce Maresco a rendersi ancora una volta nel suo film “irreperibile”, introvabile come il testo di cui egli è più che mai l’artefice totale, a maggior ragione la pedina chiave. Di necessità “mancante” come la verità che negandosi trova una sua piena e coerente affermazione. In quanto ineccepibile “figura dell’assenza” ecco che il negletto e irreperibile Maresco può permettersi di vanificare senza infingimenti la banale intelligibilità degli eventi, ove questo comporti il ricorso a un’esposizione eccessivamente ordinata e lineare. La contropartita del controllo dell’opera consiste nel consueto, costante ritagliarsi il proprio posto di comando fuori campo: posizione di assoluto rilievo, confermata, anzi potenziata dall’inconfondibile, acusmatica voce, autentico marchio d’autore già dai tempi del duo Ciprì-Maresco, o Maresco-Ciprì, giunto ora all’inevitabile sbocco del solo Maresco. La cui invisibilità coincide appunto con il fungere da pura istanza dell’enunciazione filmica, corrispondendo allo specifico della materia trattata: l’irriducibilità, l’ineffabilità e inafferrabilità sia del concetto di “mafia” o della semplice parola (“oscena” ove si voglia con ciò intendere fuori dalla scena), sia della ben diffusa dimensione “mafiosa”, che trascende quella Palermo su cui si concentra Maresco, pronto a eludere il fedele ed esterrefatto Sanguineti, il quale lo insegue per gioco, trasformandosi così in interlocutore privilegiato dello spettatore, pronto a interagire con la forma riottosa del film, a riannodarlo, a sconfessarne preventivamente la drammatica, cupa consistenza.