CINEFORUM / 544

Immagini di cenere

 di Alessandra Mallamo «Del resto non bisogna dimenticare che Napoli è l’unica città al mondo in cui accade un miracolo a una data fissa, il 19 settembre, il miracolo di san Gennaro». (Roberto Rossellini in un’intervista con Rohmer e Truffaut) Una delle operazioni poetiche più convincenti del lavoro di cyop&kaf è contenuta nel titolo. Il segreto infatti è almeno due cose: è il nome proprio del luogo dove i bambini dei Quartieri Spagnoli nascondono gli alberi che dovranno bruciare per il falò dedicato a Sant’Antonio, ed è ciò che da sempre, per essere tale, deve essere celato o rivelato solo a pochi. Così la nostra curiosità è sollecitata; già solo l’idea che in un documentario, opera di disvelamento per eccellenza, ci sia qualcosa che è tenuto nascosto basta ad azionare il meccanismo del desiderio di sapere. In quanto luogo fisico, “il segreto” rappresenta materialmente e concettualmente il centro della narrazione, ma è un luogo non luogo, un’utopia a cui mancano però i tratti fondamentali della non esistenza, perché esiste, e della desiderabilità, perché a nessuno interessa quel posto così com’è. Nient’altro che un vuoto, lasciato lì dal terremoto del 1980 e dall’incuria. Ci si è preoccupati giusto di mettere in sicurezza la zona, eliminando i resti pericolanti dell’edificio, nel 1993, come mostrano le immagini amatoriali montate dopo i titoli di coda del film, per far vedere allo spettatore come quello spazio sintomatico abbia avuto origine. Se Il segreto è un meccanismo di attrazione per chi si accinge a vedere il film, per i giovani protagonisti è una cosa completamente diversa, c’è quindi uno scarto netto tra il significato che questa parola ha per noi al di qua dello schermo e per loro al di là, e a ben vedere si tratta, non a caso, di una parola vuota almeno quanto il luogo di cui abbiamo detto. La visione è possibile perché (“)Il segreto(”) rappresenta un punto di contatto tra al di là e al di quà, e non è così che può essere interpretato anche un rituale religioso popolare come quello attuato dai protagonisti? Esso è il centro gravitazionale di una serie di forze che gli orbitano intorno, letteralmente, in senso newtoniano, una parola/spazio vuoto che attrae tanti elementi tra loro distinti (i bambini, gli adulti, la città di Napoli, gli spettatori e gli autori) creando così un vero e proprio sistema di relazioni. Ma cos’è che si rende visibile? La volontà degli autori è quella di restituire nel modo più diretto possibile il frammento di realtà che hanno scelto di narrare, riducendo ai minimi termini la presenza della macchina da presa per definire la forma grezza e autentica di un’immagine improvvisa(ta), strappata al reale senza ipocrisie e pregiudizi. Tale vicinanza è stata legittimata dal fatto che cyop&kaf non sono affatto estranei alla vita dei quartieri, forse non sono stati bambini molto diversi dai protagonisti, o forse non lo sono ora, che operano nell’anonimato disegnando le mura della città (1). Soprattutto, questo modo così naturaliter di relazionarsi alla realtà non è un espediente da cinema-verità. Esso è conforme alla relazione che sussiste tra i bambini e il mondo in cui vivono, un rapporto senza mediazioni con il potere, qualunque cosa significhi questa parola. Dal loro punto di vista manca completamente la rete sottile che media diverse forme di dominio facendole entrare nelle nostre vite di nascosto, quella maglia continuamente differenziata, invisibile ma sempre presente che in tanti modi ci determina. Dal loro punto di vista è tutto fin troppo visibile, i loro corpi da acrobati di circo si contrappongono direttamente a tutte quelle serie figure e istituzioni che regolano l’esistenza. Nessuna mediazione: da una parte una volontà e una forza, dall’altra forze diverse, siano esse uguali e contrarie, come quelle delle bande rivali che vanno a caccia degli alberi, siano quelle di diversa natura, che decidono di intralciare il progetto di portare via un vecchio albero, o di appiccare il fuoco per il cippo. Non si tratta di mettere in scena l’esperienza mitica e ingenua del buon selvaggio, perché nella banda dei Quartieri Spagnoli vige una ferrea organizzazione del lavoro da fare e una chiara determinazione circa l’obiettivo da raggiungere. I bambini hanno le loro regole e le loro strategie, non perché siano cresciuti per strada, a contatto con il degrado, o per qualunque altra motivazione pregiudiziale si voglia trovare ma, prima di tutto, perché sono bambini, e si confrontano con la vita attraverso parametri che di semplice, astratto, lineare, non hanno assolutamente nulla. La loro mente non è una molle tavoletta di cera, una tabula rasa su cui la vita scrive le sue storie, ma è un labirinto intricatissimo, fatto di vie di fuga, nascondigli e passaggi segreti, in cui i pensieri e le esperienze viaggiano a velocità elevatissima (magari in motorino!). Allo stesso modo, muovendosi dentro il labirinto delle vie di Napoli, il film segue le traiettorie dei bambini e costruisce dietro a esse la logica della narrazione. Una logica che mostra la dispersione, secondo un principio di senso che rimane oscuro se non si va fino in fondo. Il carattere anarchico delle immagini e il procedere zavattiniano del montaggio convogliano verso la centralità del luogo intorno a cui si piega il racconto. Tutto torna verso lo stesso nucleo, tutto converge e orbita presso “il segreto”. Ad aggiungere plasticità al concetto c’è poi il fatto che nel cuore di questo spazio si trova una sorta di pozzo, un buco che affascina immancabilmente – com’è giusto che sia – la curiosità dei ragazzi e che diventa il palco su cui mettere in scena, per loro stessi e per gli altri, il gioco del coraggio e della sfida, scavalcandolo con un salto, o entrandoci dentro per esplorarlo. Il senso di pericolosa avventura che contraddistingue l’infanzia, e tutto il film, viene fuori con più forza quando si tratta di andare in missione contro una banda rivale, o di fare la guardia serale sotto la pioggia agli alberi del rifugio. Non che ci sia molta differenza con la gara di salto: in entrambi i casi assistiamo a una sorta di rappresentazione teatrale dentro la drammaturgia del reale. Le gesta minuscole di un gruppo di scugnizzi napoletani divengono immediatamente meritevoli della nostra attenzione, il disordine senza importanza che essi creano per riuscire nella loro impresa appare come qualcosa di leggendario, che mette da parte il drammatico in nome del drammaturgico, che sostituisce la solennità delle cose ultime (il sacro, la tradizione, il significato, la società, eccetera eccetera) con i segreti banali delle cose penultime. Segreto di Pulcinella, cose che stanno sotto gli occhi di tutti. Al cinema tocca oggi il dovere di mostrare il più comune dei segreti, scovare gli aspetti indicibili di ciò che è senza importanza: gli alberi di cui disfarsi dopo le feste, i bambini che vogliono sempre giocare con il fuoco, le migliaia di vite che passano e vanno in fumo ripetendo sempre lo stesso rituale. Non alludo qui al discorso sociologico che potrebbe ammantare le immagini dei ragazzini napoletani con una fumosissima pedagogia, ma a noi spettatori che, nella tenerezza e nella sorpresa in cui siamo coinvolti, scopriamo la vita come qualcosa che passa in quel che resta da buttare via dopo una festa (il Natale!). Un documentario ha a che fare con la verità, e la strategia di verità che ha illuminato e reso visibile un film come Il segreto è la stessa che consiste nel riempire un buco (nero) con delle fiamme: un niente che divora la luce con una luce che è niente.

(1) cyop&kaf, scritto minuscolo, è il nome di un collettivo anonimo di street artist napoletani che sul loro sito (www.cyopekaf.org) si descrivono così: «Terribilmente soli, o quasi, questi oramai ricercati artisti (ricercati più dalla digos che dai collezionisti) continuano imperterriti nel loro maniacale impegno di diffusione di segni anomali, irrequieti, talvolta inquietanti».