CINEFORUM / 555

Via dalla pazza folla

Dodicesima opera del livornese Paolo Virzì, La pazza gioia ne prosegue il discorso inaugurato da Il capitale umano, con l'attenzione rivolta agli esiti deprecabili di un sistema marcio che, in una società prevaricante, produce fragili vittime. Altro che bella vita, tutta baci e abbracci: qui la felicità è un sistema complesso, benché non impossibile da conquistare, tanto più che una vicenda dolorosa (La pazza gioia non è infatti una commedia) può non essere priva di lati comici: è l'espediente della favola a consentirlo, ché la scorribanda on the road delle due instabili ed emotivamente segnate protagoniste rientra in quel solco. Personaggi contagiati da un ambiente infetto, Beatrice e Donatella sono creature tecnicamente pazze – «Sembrerebbe di sì», dice la prima «secondo alcune perizie» – in fuga per le strade della Toscana, in cerca di quel barlume di felicità sin lì negato e desiderose di riprendersi quella vita che, anziché maturarle, le ha fiaccate nell'animo. Lucida follia? Mica tanto. Al pari di Caterina, Beatrice e Donatella “vanno in città” in cerca di normalità ed equilibrio, e non è conquista immediata, né esente da scontri. Cresce tuttavia la complicità tra le due donne, si fa anzi qualcosa di puro (benché entrambe le donne siano forse le prime a non esserlo), rivelando il tocco femminile di Francesca Archibugi, della quale l'anno prima Virzì aveva prodotto Il nome del figlio. Proprio un figlio qui, anzi, è il predefinito obiettivo di un bizzarro viaggio – come mostrano gli sgranati flashback già dai titoli di testa – destinato a culminare nell'evasione dal buio dell'infelicità, attraverso la comprensione in extremis della cosa più giusta da fare per sé stessi (e se poi l'argomento è morfologicamente trattato in forma di fiaba, va da sé che molta differenza la determina il Fato). Nel film c'è, all'inizio, un episodio di grande semplicità narrativa che costituisce la vera partenza di quell'itinerario bislacco, oltreché mostrare la ragione dell'instabilità di una delle protagoniste: in una comunità terapeutica del Pistoiese, la nobile decaduta Beatrice approfitta di un malinteso e, spacciandosi per terapeuta, avvicina la nuova ospite della struttura, Donatella (una Micaela Ramazzotti in sottrazione, di disarmante sincerità). La prima interazione tra le due è anche la prima in assoluto per una Beatrice in difficoltà di relazione con le altre pazienti, e avviene in un'autentica “scena madre” che racchiude il senso dell'opera. Tale senso è destinato a reiterare più volte, e molteplice è la sua funzione: oltre ad innescare la miccia narrativa, consente a Beatrice di svolgere due mansioni, camuffandosi da persona “normale” (ovvero ordinata e/o appartenente a un Ordine), e al contempo vestendo i panni demiurgici di chi cerca per missione d'individuare l'origine della fragilità di Donatella. Si noti che il nome di Beatrice, fungendo da guida in piena area toscana, connota la più classica delle icone letterarie, deputata al conseguimento di un possibile Paradiso. Valeria Bruni Tedeschi, che in Il capitale umano era l'insoddisfatta, nevrotica moglie dell'oscuro imprenditore Gifuni, incarna qui una maschera inizialmente basata su millanterie e menzogne, che snocciola aneddoti (a cui pochi prestano attenzione) sul proprio “favoloso” trascorso di moglie di un legale dell'allora premier Berlusconi. Nella rubrica di contatti del suo telefono fanno capolino i numeri di Giorgio Armani, Gianni Letta, persino George Clooney, né la donna si fa scrupolo d'importunare a notte fonda il giudice che le ha inflitto due condanne per bancarotta fraudolenta e una denuncia per stalking. Sta di fatto che proprio il suo morboso ficcanasare i fatti altrui, unica modalità che una simile figura può conoscere, le permette di fare luce sul passato di Donatella. In tal senso, come già Il capitale umano, La pazza gioia è un noir atipico: è quel clima di falsità, quell'insano gusto per la cronaca rosa che tanto sollazza le signore del bel mondo, a consentire a Beatrice d'intraprendere l'indagine (lei stessa accusa le altre ospiti della struttura di non rispettare la privacy, mentre fruga nel portafoglio di Donatella). Come non pensare, allora, all'Irene di Europa '51 e alla sua trasformazione da annoiata signora borghese in martire della società entro le mura di una clinica psichiatrica? Ben lo sapevano i maestri del cinema italiano: l'iperbole della realtà, nel proprio mendacio, innesca quel sostrato di vero che è materia autentica (n'è un esempio la sequenza della medium da cui si recano le protagoniste, che sa di Zavattini ma pure di Troisi e di Verdone). Ma il binomio, pirandelliano, tra finzione e realtà s'individua nel camuffamento delle amiche, le quali – su un set cinematografico allestito nella villa della madre di Beatrice – si fingono comparse per raggiungere il figlio di Donatella, a cui il Tribunale ne ha tolto la potestà. E questa, dopo essersi furtivamente avvicinata al bimbo mentre Beatrice trattiene i genitori affidatari, offrirà all'amica il lucido resoconto del proprio calvario, lo sguardo perso nel vuoto dei ricordi, parificando così due anime speculari divise dal ceto ma simili nella cognizione del dolore e nell'incomprensione familiare. Raggiunta la condivisione, entrambe si accasciano sul muretto di un lungomare, sotto la luna, in una posa complementare tesa a restituire un quadro disperante che solo un'appassionata complicità può annullare. La pazza gioia è film ricco di situazioni speculari, così come il controsenso è ingrediente fondativo per ogni commedia italiana: a parte l'antitetico scambio del primo incontro, si ha un'occasione di dialogo vero al ristorante dove le due discutono del precario rapporto coi propri genitori. Complementari sono infatti i rispettivi nuclei familiari nel comportamento affettivo: musicisti falliti come il padre di Donatella, madri egoiste patetiche e irresponsabili senza capacità né voglia di offrire aiuto; e nel ritrovare una stagionata Anna Galiena in un ruolo che rammenta quello interpretato in Il grande cocomero, si conviene che anche La pazza gioia ruoti sul binomio malattia-guarigione, dove guarigione sta per maturità. La scelta di campo nel descrivere la diversa estrazione sociale ribalta l'atteggiamento dei personaggi per come appaiono: non è l'emarginata a inguaiare quella di buona famiglia ma l'esatto contrario, giacché Donatella vorrebbe riabilitarsi pur di ottenere la custodia del figlio o anche solo vederlo, mentre la seconda, per tracotanza e poca voglia di mettersi alla prova, cerca scorciatoie continue (salire su un bus senza biglietto, scroccare passaggi, fuggire da un ristorante senza pagare, rubare soldi). Beatrice s'aggrappa all'ebbrezza di una vita irresponsabile, benché lo faccia anche per l'amica. Come quando invola denaro e gioielli all'ex marito per consentire a Donatella di fuggire dall'ospedale psichiatrico e ricongiungersi al figlio; o quando tenta senza riuscirci di riallacciare il rapporto con chi ama, non ricambiata, e l'ha messa nei guai. Entrambe hanno rapporti negativi con figure maschili deficitarie, e complementare è la loro fuga dove una è acciuffata e l'altra scappa, e viceversa: prima è Beatrice a proseguire mentre Donatella torna all'istituto che l'aveva dimessa, poi sarà Donatella a non farsi prendere quando Beatrice finirà in struttura. E vi è dualismo nel tentativo di Donatella di uccidersi col figlio (in flashback) col suo ritrovare su una spiaggia il bambino cresciuto e fare il bagno con lui. Da fluido contenitore, che restituisce al ralenti la felicità sui volti di madre e figlio prima della loro separazione, l'acqua è il luogo sereno e non pericoloso di un ricongiungimento affettivo: l'elemento che li ha visti uniti per l'ultima volta si pone come invito a riprendere da quella prima cosa bella interrotta. Poi una moto investirà accidentalmente Donatella e la parte infelice di lei morrà, resuscitando però quella colma di speranza e libera da spettri. Non sarà più il Caso a incrociare sguardi ed esistenze di entrambe, ma un'aritmetica, perfetta combinazione. Senza fine.