CINEFORUM / 556

La fine ci riguarda

C’è chi chiude gli occhi e si addormenta mentre inizia la prima lezione dell’anno accademico, a conclusione di una tre giorni (e notti) all’insegna della fisicità a oltranza. E c’è chi sogna a occhi aperti un’impossibile normalità da vivere sulla riviera romagnola, in fuga da carceri, libertà vigilate o permessi 48 ore. C’è anche chi immagina, nella luce che proviene da un cielo sgombro di nuvole, una seconda possibilità per riprendere il filo interrotto di un discorso (di una vita) e tornare a dare significato all’espressione “amore materno” (e filiale?). Oppure c’è chi stempera il rancore nella memoria di uno sguardo che lo (ci) raggiunge dal fondo degli anni, in un inseguimento infinito e per questo bloccato inesorabilmente nel fermo immagine conclusivo. Elogio della fine che non chiude. Che – nella varietà dei modi in cui è declinata – rimanda a chi guarda il compito (o il rischio o la responsabilità o l’esperienza intellettuale, decidete voi) di completare il film che ha appena terminato di vedere, conferendogli il senso che riesce a scorgere tra le pieghe virtuali di quell’ultimo fotogramma, nella distanza tra spettatore e immagine che dovrebbe sempre spingere il primo all’esercizio della sua intelligenza. Se si considera la tipologia delle inquadrature prevalentemente utilizzate in esplicita funzione di chiusura aperta (tralasciando quindi quelle che funzionano da segno abbinato a un determinato genere – o sottogenere o variante più o meno temporanea di genere), non è difficile riconoscere che la palma per i “soggetti” designati a questa funzione va assegnata al mare, al cielo, agli occhi (o, diciamo, allo sguardo, includendo in questo termine tutti i possibili piani con cui sia dato di inquadrare gli occhi di un personaggio). Si tratta di soggetti fortemente ambivalenti: possono rimandare all’idea di apertura, speranza ma, all’opposto, anche a quella di vertigine, caduta, deriva. Spesso l’alternativa tra queste due direzioni si gioca nella relazione tra il narrato e il contesto storico, nella qualità delle aspettative (in senso lato) che caratterizza quest’ultimo; come sempre, maggiore è l’ambiguità della relazione maggiore è lo spessore espressivo del film che in quell’inquadratura trova la sua chiave. Come appare dalle prime righe, in questo numero si concentrano alcuni titoli importanti che presentano la modalità di una “fine che non chiude”, chiamandoci dunque in causa per una sua decrittazione. Misura dell’inquietudine con cui il cinema si confronta con le nostre incertezze e quelle dei tempi che viviamo.