CINEFORUM / 572

Amici americani

Che Spielberg con The Post abbia voluto realizzare un film utile (almeno secondo la sua idea di “utile”) mi sembra fuor di dubbio. E, per certi aspetti, molto più che non in altri celebrati titoli della sua produzione storica e civile. La positività del doppio messaggio in esso contenuto (le due equivalenze possibili, stampa/verità e donna/potere, nella connotazione inequivocabilmente positiva che, in questo film, le caratterizza) intende ammonirci e educarci (ri-educarci?) affinché possiamo tornare a osservare questo mondo, questa contingenza storica, così poco tranquillizzanti, nutrendo motivate speranze nelle possibilità di un comune riscatto, quando questo sia fondato su solide virtù individuali. Si tratta, in fondo, della stessa logica imprenditoriale che Stanley Kubrick leggeva in Schindler's List – “normalizzata” da un contesto di riferimento certo meno eccezionale rispetto a quello della Shoah. Spielberg desidera essere senza dubbio il nostro amico americano, capace di darci indicazioni preziose sulla via e sui modi da seguire per ritrovarci, vale a dire per ritrovare il nostro io democratico e ottimista nella prospettiva di un futuro che guardi al meglio di sé, alla luce dei valori ancora validi di un passato soltanto prossimo.

Chiamami con il tuo nome a prima vista appare lontano anni luce dall’operazione spielberghiana. E lo è, in effetti, se ne consideriamo il quadro di riferimento geografico, storico, culturale, la dimensione individuale e interiorizzata dello sviluppo drammaturgico dei personaggi rispetto a quella collettiva/pragmatica di Graham, Bradlee e gli altri. Eppure anche in questo percorso affettivo/sentimentale emerge fortissimo l’elemento educativo, che si trasferisce – com’è ovvio – dai due protagonisti che lo compiono insieme allo spettatore che ne segue e ne commenta la vicenda. Soprattutto per Elio vale l’aspetto “éducation sentimentale” con tutto ciò che questa si porta dietro, in particolar modo la ricerca di un sé ancora informe che soltanto attraverso l’esperienza vissuta in totale sincerità può ambire a costruirsi e dotarsi di senso, per quanto necessariamente sempre provvisorio. Che lo “strumento” senza il quale questa ricerca sarebbe probabilmente destinata a fallire, o quantomeno ad affrontare sofferenze nascoste quanto inutili, sia Oliver, americano, concreto, diretto nel dare espressione al desiderio e nell’attuazione del suo soddisfacimento, non è certo di secondaria importanza.

Senza dubbio, nel film di Luca Guadagnino un ruolo cruciale è rivestito dalla figura paterna, peraltro così lontana dal modello tradizionale del Padre (non soltanto italico), per la sua propensione a sciogliere i nodi invece che a rinserrarli. Ma, sia pure per opposizione, non gioca una funzione altrettanto centrale il fantasma carismatico del padre anche nella scelta di Kay, che la proietterà verso la realizzazione del suo sé fino a quel momento inespresso?