CINEFORUM / 574

Paesaggi con figure

 

A partire dalle sue origini, la forza del cinema risiede essenzialmente nel suo poterci mostrare le mille possibilità in cui si articola il rapporto tra corpi e paesaggi. Nel cogliere infallibilmente, con il suo sguardo capace di vedere ciò che è invisibile al nostro, ogni particolare della dialettica che presiede agli infiniti modi del loro essere in relazione, compreso quello – istruttivo, rivelatore – dello scambio fra le rispettive identità e funzioni. 
Se il momento in cui questa dissolvenza incrociata ci è dato nella sua forma più sublime è senz’altro costituito dal piccolo grande film di Varda/JR («Agricoltori, campanari, operai, campi di girasoli, montagne di sale, vecchie storie d’amore, un villaggio fantasma che diventa un set, un postino, un piccolissimo cimitero in cui riposa Cartier-Bresson»), non mancano su questo numero di «Cineforum» altri titoli esemplari a questo proposito: Charley Thompson, ad esempio (o meglio, come giustamente viene sottolineato, Lean on Pete), dove il deserto è «consolatore […] per iniziare a (ri)costruire un percorso lontano dal pensiero comune»; o I segreti di Wind River, con i suoi campi lunghi sulle «enormi distese di neve solcate esclusivamente per mezzo di motoslitte» per ribaltare, in questo western traslitterato, «il protagonismo dell’eroe di fronte al gigantismo della natura [nel] suo totale smarrimento di fronte al senso di inesorabile perdita». 
Rapporti, relazioni si instaurano tra i corpi e i paesaggi fino a una reciproca contaminazione, della quale fanno le spese i soggetti più fragili, com’è dolorosamente ovvio. I più effimeri e precari. Non c’è da meravigliarsi se questo avviene in quelle “terre desolate” dove la mano della “civiltà” ha portato mutazioni incontrollate, dando origine a singolari ecosistemi dove chi cerca i resti di un qualche progetto si trova inevitabilmente scaraventato sul confine fra l’orrore e la farsa. Il Cratere: «Un dolcissimo horror gotico», «che sin dal titolo rimanda all’indefinitezza da non-luogo dell’hinterland partenopeo». Un sogno chiamato Florida (in originale, The Florida Project): «Paesaggio della banalità mitica che è la quintessenza stessa dell’America, il paesaggio dell’indifferenziato, del sempreuguale», di cui il motel è elemento essenziale, non a caso trasversale a tutti i generi del cinema. Il transito dai non-luoghi in cui natura (o il suo simulacro) e cultura (o il suo simulacro) sfumano nell’indifferenziato, testimoniando del caos antropologico in cui tutti tendenzialmente abitiamo, all’idea di paesaggio interiore dalla geografia incerta, e per tanta parte misteriosa, è molto breve. Il cinema di Adrian Sitaru, che Bergamo Film Meeting 36 ha finalmente portato allo scoperto, si muove proprio in questo ambito, alla ricerca di una Romania che cambia, tra Storia collettiva e storie individuali, cartografandone nei suoi film profili e comportamenti come tasselli costitutivi di un paesaggio unitario, tutto da esplorare: «Parlo di persone, luoghi, città e relazioni che frequento e che mi circondano».