Concorso

Isle of Dogs di Wes Anderson

focus top image

Era inevitabile che la messinscena lineare del cinema di Wes Anderson prima o poi incontrasse il mondo giapponese. Un mondo a livelli orizzontali e verticali, graficamente lineare e geometrico, fatto apposta per essere riproposto attraverso l’estetica del regista americano, che ovviamente non cambia mai e qui torna in tutta la sua riconoscibilissima evidenza: inquadrature frontali, primi piani e campi lunghissimi ricchi di particolari, miniature semoventi, riduzione della realtà a segno grafico… Isle of Dogs, ora che esiste, è in realtà il film che esisteva già.

Eppure, l’immaginario giapponese, per quanto avvicinato e riadattato, non viene mai veramente riprodotto. Fin dal prologo, Anderson ricorre all’iconografia pittorica del disegno su carta e dell’illustrazione, alla pittura ottocentesca e poi al teatro nō, al manga e all’anime; ma lo fa lasciando che le immagini del suo film siano arricchite dalle infinite altre immagini del mondo a cui rimandano, e non appiattite sul semplice rimando o la semplice citazione. Isle of Dogs non è un omaggio all’iconografia giapponese. Ben oltre il semplice innamoramento del neofita, è piuttosto la ricerca di una radice comune a due mondi che dialogano per la prima volta, lo scavo oltre la forma immediata e riconoscibile di un segno, un tratto, un disegno. 

In questo senso, la scelta dell’animazione in stop motion è più giustificata rispetto a Fantastic Mr Fox, perché nell’estrema libertà compositiva che la tecnica comporta Anderson sonda le potenzialità del suo procedimento artistico, ne sfrutta il potenziale creativo per riprodurne paradossi e origini: ad esempio, nei movimenti circolari della macchina da presa che, ripresi da un punto di vista frontale, risultato ironicamente piatti; o nella profondità di campo gestita su più livelli, a partire dalla tipica divisione a pannelli delle abitazioni e delle scenografie giapponesi (e bravo a chi prima di oggi aveva intuito che le case di bambola di Anderson erano anche, o in realtà, delle case di bambù). 

Il racconto stesso del film, che a partire dalla cacciata di tutti i cani dall’ideale metropoli Megasaki (come sempre sospesa fra modernariato tecnologico e gusto passatista) porta su un’isola di rifiuti dove gli animali sono abbandonati, attraverso i fili delle linee funicolari che collegano il mare e la terraferma rimanda all’idea di relazione e legame. La scoperta e l’accettazione dell’identità del singolo all’interno di un gruppo sociale, tema fin abusato nel cinema di Anderson, riguarda sia il rapporto fra i singoli cani (fra quelli costretti a lasciare la  placida dimensione di animali domestici e quelli randagi), sia fra questi ultimi e gli uomini, chiamati a rifondare un’idea di collettività. 

Come sempre in Anderson, anche in Isle of Dogs la gentilezza del tratto e la carineria dell’insieme (con i soliti primissimi piani, anche canini, che mostrano il massimo dell’ingenuità di un cuore, o i segnali buffi di un mondo dolcemente stupido, dal bubolare di un gufo allo starnuto di un cane con tanto di nuvoletta del fiato trasformata in riccioli di lana…) è accompagnata da improvvise apparizioni di immagini di dolore e violenza fisica. La testa infilzata di componenti meccanici del piccolo protagonista umano del film, Atari, nipote del perfido sindaco di Megasaki, Kobayashi, che parte alla volta dell’isola dei cani per ritrovare il suo amato Spots, è un rimando all’estetica cyberpunk giapponese, e alla stessa maniera dei momenti in cui a essere richiamati sono i manga e gli anime si inserisce quasi invisibilmente nel tessuto del racconto, in una forma assorbita e riutilizzata. 

Non è un caso che i momenti a tecnica mista del film, con il disegno animato che si sostituisce alla stop motion, siano filtrati da schermi televisivi (rigorosamente in bianco e nero su apparecchi anni Sessanta) e da schermi di servizio; o che la scelta linguistica di far parlare gli umani in giapponese e i cani in inglese metta sullo stesso piano due universi e li faccia dialogare attraverso il commento e la traduzione simultanea in diretta. 

Che il cinema di Anderson non sia mai stato diretto e istintivo, che sia troppo di testa e solo per chi accetta di far parte del suo giochino intellettuale, lo si è sempre detto e saputo: ma mai come questa volta l’ennesima ripetizione di una formula fissa ha mostrato la necessità, non di evolversi, ma di operare uno scavo (come in fondo indica l’ultimo movimento di macchina del film…) nella propria identità, provando a smuovere con altre tecniche, altre forme, altre culture e altri immaginari, la propria superficie piacevolmente piatta.