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Victory Day di Sergei Loznitsa

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Storia, memoria, racconto, messa in scena. L’occhio documentario di Sergei Loznitsa si è fissato da lungo tempo su questi temi. Che sono difficili, quasi impossibili, da raccontare da un punto di vista prettamente soggettivo, ma proprio per questo restano questioni che spingono a dibattere e richiedono un approccio dialettico allo spettatore. È stato così per il precedente doc del regista Ucraino, Austerlitz, racconto in una ventina di piani sequenza di una giornata all’interno del campo di concentramento di Sachsenhausen (vicino a Berlino), osservando come i turisti, nel 2016, affrontano la visita in un luogo tanto sconcertante. Ed è così per quest’ultimo Victory Day, girato, come Austerlitz, in un solo giorno e che mostra le celebrazioni della festa del 9 maggio al Memoriale per i soldati sovietici del Treptower Park di Berlino. Il 9 maggio, che per tutti i paesi dell’ex blocco comunista era festa nazionale – e lo è ancora in molte nazioni dell’ex Urss, Russia compresa – celebra la liberazione dell’Europa dal nazismo della primavera del 1945 (la data si riferisce al giorno successivo alla firma della resa della Germania) e coincide, anche se lo sanno in pochi, con l’attuale Festa dell’Europa.

Ed è proprio dall’Europa che vale la pena partire, per orientarsi nel non semplice lavoro di Loznitsa. Perché fra le prime cose che si notano osservando il film c’è proprio la problematicità del rapporto fra le due Europe intorno alle quali si ragiona. E cioè quella del 1945 e quella di oggi. Due idee, ancora prima che due continenti, completamente differenti, quasi estranee fra loro. Le persone che raggiungono Treptower Park il 9 maggio sono per lo più russi che vivono a Berlino, ma fra loro c’è una numerosa folla che arriva dagli angoli più disparati dell’ex Unione Sovietica, perfino dal lontanissimo Kazakistan. Sono soprattutto i discendenti dei soldati caduti durante la liberazione della capitale tedesca sepolti nel memoriale (circa 7000 degli 80000 che persero la vita), ma il loro è un gruppo eterogeneo di stranieri in terra straniera che celebra un bizzarro spirito unitario di appartenenza. Dell'ex Urss da un lato, anche se alla nostalgia per le vecchie repubbliche socialiste sembra sostituirsi un nazionalismo panrusso molto difficile da interpretare. Ma in senso più generale anche un'appartenenza all’idea – germogliata proprio dalle ceneri di Berlino e delle altre capitali europee devastate dal conflitto – che potesse sorgere, dopo l’inferno bellico, un sentimento di unità e pace su larga scala e che si sarebbe tradotto, da lì a poco, nella creazione della UE.

Tuttavia – almeno in termini culturali e sociali – quel progetto appare oggi completamente fallito. L’Europa del 2018 ci costringe a guardare le donne e gli uomini che nel film percorrono i viali del memoriale, cantano, danzano e sventolano bandiere – come retaggio di un passato in frantumi e mai ricostruito. Quelli che nelle intenzioni del regista dovrebbero rappresentare una razza in estinzione, un manipolo di nostalgici figli di un’ideologia sconfitta, sono però un insieme di figure dolenti che testimonia come il 9 maggio sia tutto tranne che la Festa dell’Europa. Ovvero che in un continente dove si fanno strada nazionalismi, revanscismi e nostalgie anche per le peggiori dittature, ciò che di certo non mancherà a nessuno – una volta che si sarà dissolta del tutto – sarà proprio l’Europa.

Loznitsa ragiona su questa ambiguità, ma il suo sguardo – che come nel film precedente si concentra sullo spazio e sulle architetture – sembra puntato soprattutto sulla contraddizione generata dall’esistenza di monumenti  che commemorano un regime e contemporaneamente sono oggetto di un pellegrinaggio fondato su ideali come libertà, pace e vittoria. Ed è in effetti molto difficile interpretare il film in maniera obbiettiva: la straordinarietà del luogo – che suscita nel visitatore un innegabile fascino – e la magnificenza dei monumenti (soprattutto l’enorme statua del soldato sovietico che schiaccia la svastica sotto i piedi e che sovrasta il mausoleo del milite ignoto), fanno dimenticare di essere in realtà dentro un gigantesco cimitero. E infatti a fianco della compostezza delle celebrazioni ufficiali il 9 maggio regna una grande allegria. Il regista, che ha uno sguardo indulgente seppur velato di amarezza, osserva i visitatori con ironia e contrappone continuamente le immagini geometriche delle architetture a quelle disordinate e filmate da vicino della gente che ride, scherza, mangia beve e canta. Il tutto immerso in una confusa mescolanza di tradizione e modernità dove a fianco dei canti popolari come i celebri Katjuša e Kalinka si accostano orrendi brani turbo-folk o fra le effigi degli eroi della guerra che si stagliano su stendardi e bandiere compaiono t-shirt con il volto di Putin.

Quasi che storia e la memoria essendo entrambi dispositivi che facilmente osservabili ed elaborabili in senso soggettivo, possano esistere ed essere veri allo stesso modo e tempo da qualsiasi posto – e  luogo – le si guardi. Prospettiva questa che fa sì che il film – a differenza di Austerlitz, che era un’opera totalmente identificabile con l’occhio del proprio autore – diventi immediatamente un materiale universale, a disposizione di tutti.

E a proposito di spazio, che Loznitsa abbia deciso di ambientare gli ultimi suoi due documentari a Berlino non può essere un caso. Perché la capitale tedesca oltre a essere uno dei luoghi più frequentati dalla Storia del Novecento è anche posta – forse per un destino bizzarro, o per uno scherzo della storia stessa – nel centro esatto dell’Europa.