Concorso

BlacKkKlansman di Spike Lee

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In un periodo dove ormai le narrazioni che riguardano i conflitti razziali in America sono state sdoganate nel discorso ideologico sotto forma di diritti civili, identity politics e paradigma vittimizzante – cioè con il registro del dramma – Spike Lee è da anni che sta lavorando controcorrente per la costruzione di un immaginario diverso. Politicamente radicale ed esteticamente dirompente, perché le due cose devono sempre andare insieme. È stato il caso tre anni fa di Chi-raq, la riattualizzazione della Lisistrata di Aristofane usata per raccontare le violenze delle gang nei ghetti neri di Chicago così come del remake televisivo di She’s Gotta Have It dell’anno scorso e di questo BlacKkKlansman, inaspettata commedia sopra le righe – politica come raramente è capitato di vedere nel recente passato – che prova a mettere i piedi nel piatto del ritorno del suprematismo bianco durante la presidenza Trump.

Siamo negli anni Sessanta in America, nella provincia che più provincia non si può, a Colorado Springs, lontano dai conflitti del movimento per i diritti civili dell’Alabama o del Mississippi, ma lontano anche dalle città come Oakland o Detroit dove i movimenti black urbani, su tutti le Black Panthers, iniziavano ad acquistare consenso. Ron Stallworth, capelli afro e stile blaxploitation alla Shaft, è un giovane aspirante detective che vorrebbe iniziare a lavorare nella polizia della città: primo poliziotto di colore in assoluto a fare il detective in quella sede. «Che cosa faresti se un collega ti chiamasse ni**er?» è una delle prime domanda che gli fanno al colloquio. Lui all’inizio è fedele alla divisa e crede nella missione democratica della polizia, anche quando lo mandano come infiltrato in un gruppo di Black Panthers locali. Ma il comizio di Stokely Carmichael (che in quegli anni aveva appena cambiato il nome in Kwame Ture) è un’illuminazione: Spike Lee gira una memorabile sequenza di comizio con continui controcampi dei volti del pubblico trasfigurati in icone su sfondo nero. Per Ron Stallworth – che si innamora immediatamente anche della bellissima leader locale del sindacato degli studenti neri – è l’inizio di un percorso di presa di coscienza politica. Perché in questo film, come in tutte le commedie come si deve, la maschere e i travestimenti sono momenti di verità più della stessa realtà: e se lui inizierà a prenderci gusto a fare l’infiltrato e da agente di colore inizierà a monitorare telefonicamente niente meno che il Ku Klux Klan, sarà il suo collega Flip Zimmerman, ebreo, che andrà materialmente alla riunioni incappucciato (perché il KKK è tanto razzista contro i neri quanto anti-semita contro gli ebrei) e finirà per fare esperienza di una singolare alleanza politica con il radicalismo black.

Sembra una barzelletta: un nero e un ebreo che in poco tempo diventano leader della sede locale del Ku Klux Klan. Eppure Spike Lee usa la commedia per riuscire a isolare meglio gli elementi affatto seri della realtà contemporanea americana. Con un montaggio parallelo finale che mette l’una accanto all’altro una riunione del Klan presieduta da David Duke, un vecchio ex-Repubblicano estremista di destra realmente esistente e ora ritornato in auge durante il trumpismo, e una trascinante riunione del sindacato degli studenti black, in cui un leader nero interpretato da Harry Belafonte racconta il linciaggio di Jesse Washington del 1916 – uno dei casi più impressionanti di odio razziale di tutta la storia americana – il film sposta il proprio sguardo dalla vicenda romanzata degli anni Sessanta alla realtà di oggi. Vediamo allora i linciaggi versione 2018: la manifestazione suprematista bianca di Charlottesville di quest’estate, dove migliaia di persone afferenti a organizzazioni razziste e neo-naziste hanno manifestato il proprio orgoglio razziale in una cittadina della Virginia (causando anche una vittima); i comizi che minimizzavano l’accaduto di Donald Trump; o le dichiarazioni apertamente anti-semite di David Duke.

Le parole che durante il film venivano messe in bocca a bizzarre caricature di ignoranti white trash di provincia vengono ora pronunciate tali e quali dal Presidente degli Stati Uniti, da estremisti politici locali dalla retorica apertamente razzista, dai neo-nazisti del Sud con svastiche sulle proprie magliette che cantavano indisturbati (e difesi dalla Polizia della Virginia) la superiorità della razza bianca.

Le parole della commedia insomma non sono la caricatura del reale, non servono ad alleggerire quello che di insopportabile c’è nella politica reazionaria degli Stati Uniti di oggi, ma sono semmai uno strumento (forse l’unico in questo momento e senz’altro il più efficace) per riuscire a prenderle seriamente, laddove la parodia, il dramma e la denuncia si sono ormai dimostrate armi spuntate. Così BlacKkKlansman riesce nell’effetto di straniamento di farcele sentire autenticamente per la prima volta, anche quando oggi escono dalla bocca di un Presidente degli Stati Uniti che è in diretta continuità con quel Thomas Woodrow Wilson che più di un secolo fa fece vedere Nascita di una nazione, il film di D. W. Griffith che canta le lodi del Ku Klux Klan, alla Casa Bianca. Perché la storia degli Stati Uniti non ha incidentalmente incontrato i movimenti suprematisti bianchi di estrema destra – come ci mostra l’insabbiamento dell’indagine di Ron Stallworth – ma li ha usati, allora come oggi a Charlottesville, per far fuori quei gruppi radicali black che come diceva J. Edgar Hoover sono stati la più grande minaccia interna del paese.