Quinzaine des Réalisateurs

Pájaros de verano di Ciro Guerra e Cristina Gallego

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Per vederlo il passaggio degli uccelli basta sapere dove – e soprattutto quando – mettersi a osservare il cielo. Ma per capirlo, conoscerlo, sapere quali connessioni con il tempo, il mutare dei cicli naturali e delle stagioni nasconde, bisogna restare fermi anni, decenni, se non addirittura vite o generazioni in uno stesso luogo. E diventare tutt’uno con lo spazio e con il tempo, anche se intorno, tutto, sembra sempre uguale a se stesso

Pájaros de verano inizia raccontando proprio questa lentezza e lo fa mostrando i cicli secolari che scandiscono la vita degli indios Wayuu, una popolazione di nativi americani originari della Penisola della Guajira, nella Colombia settentrionale al confine con il Venezuela. I riti di iniziazione delle giovani donne, le danze rituali per combinare i matrimoni, gli accordi economici fra le famiglie, la rivalità fra le tribù che il film mostra nei primi minuti sembrano essere l’incipit di una storia che intende indagare le radici etnografiche di un popolo costretto a fare i conti con un presente – siamo negli anni Sessanta del Novecento – che fa rima con progresso. Ma al quale un sistema tribale come il loro sembra incapace di adattarsi e per questo destinato a scomparire

Invece è proprio nel momento in cui pare che la storia sia incanalata su questo binario che Pájaros de verano cambia passo e si trasforma in qualcos’altro. Lo scontro fra gli Wayuu e il progresso diventa infatti il focus di una prospettiva del tutto differente e inaspettata. Il giovane Raphayet vuole sposare Zaida ma non ha abbastanza denaro per pagarsi la dote (che nella cultura degli indiani Wayuu spetta all’uomo). Trova però ben presto un metodo facile e veloce per far soldi: vendere marijuana (che altri nativi coltivano sulle colline della penisola) agli hippie americani che bivaccano sulle spiagge della costa vicino al villaggio degli indios. Il passo per diventare un ricco e potente narcotrafficante internazionale a quel punto è brevissimo e – nell’arco di una decina d’anni – Raphayet costruisce un piccolo impero criminale.

La vicenda da cui prendono spunto Guerra e Gallego è accaduta realmente ed è di fatto il momento fondativo della lunga (e infinita) storia del narcotraffico colombiano – quello della cocaina, che come è ricordato in un fugace dialogo del film, era affare di quelli di Medellin, sarebbe esploso solo pochi anni dopo. Ai due registi tuttavia non interessano né la cronaca né la storia, quanto piuttosto il valore antropologico e culturale che la complessa questione del traffico di stupefacenti fra Stati Uniti e America Latina veicola. Come un colpo di coda tardivo del colonialismo il narcotraffico – nel film – riesce infatti a distruggere anche quella minuscola parte di popolazioni native che ancora sopravvive nel continente americano. I bianchi, che nel film ricoprono un ruolo marginale, soccombono tanto quanto (forse addirittura in maniera peggiore) gli indios ai giochi di potere che il mercato della droga scatena, ma la questione che marca una differenza decisiva e sostanziale è quella antropologica. Sono infatti i valori che vengono dati alle persone e alle cose a determinare lo scarto fra le culture in gioco. A differenza delle storie di narcotraffico che il cinema ci ha raccontato (da Scorsese in giù) in Pájaros de verano  vediamo un microcosmo di criminalità autodistruggersi non a causa del denaro – vero principio ontologico del colonialismo – ma in nome di una tradizione morale e di una memoria millenaria che pur nutrendosi con la superstizione non danno quasi alcun valore dei beni materiali. Come se l’illusione stessa di poter giocare allo stesso gioco dei conquistatori sia allo stesso tempo un’inesorabile condanna.

E nel finale del film, quando gli stormi di uccelli giungono a scandire il passaggio del tempo e delle stagioni, incontrano lo stesso deserto di sempre, le stesse foreste e le stesse spiagge. Ma più nessuno fermo ad osservarli.