Concorso

Under the Silver Lake di David Robert Mitchell

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Tutto comincia nell'appartamentino arroccato sui tetti di una fatiscente East Side Los Angeles, dove vive Sam, un giovanotto squattrinato che assomiglia molto a Tony Perkins ai tempi di PsycoAndrew Garfield, non l'attore più espressivo del mondo), dotato di una mamma invadente che gli telefona per consigliargli i film di Janet Gaynor, appassionato di horror e di Kurt Cobain (ha poster dell'uno come degli altri, dal Dracula di Browning a Il mostro della Laguna Nera di Arnold), di vecchi numeri di PlayBoy, sui quali si masturba serenamente, ma interessato anche alle ragazze, che spia dalla finestra con il binocolo, dalla dirimpettaia ex hippie che fa ginnastica sul balcone a seno nudo alla giovane bionda del pianterreno, con cappello, cagnolino e bikini bianchi. Sam aggancia la biondina, Sarah, va a casa sua, dove guardano insieme Come sposare un milionario di Negulesco, con Betty Grable, Lauren Bacall e Marilyn Monroe, delle quali possiede anche le riproduzioni formato Barbie. Le ragazze si muovono sempre in tre, sostiene Sarah; e infatti il giorno dopo sparisce insieme a due amiche. E Sam comincia a cercarla negli anfratti della Los Angeles perduta, corrotta, devastata, marcia, incappando nel giro della prostituzione delle starlet, nella scomparsa di un miliardario, in teatri e discoteche costruiti sopra e sotto i cimiteri (con profluvio, naturalmente, di pietre tombali con nomi celebri), nella statua di James Dean al Griffith Park, in pratica in tutti i possibili clichés della Hollywood Babylonia dai tempi del muto all'era del digitale (credo, ma non ne sono sicura, che rientri in questa sfera anche l'omaggio a Janet Gaynor: grande attrice destinata a ruoli di ingenua e signora riservata, in realtà pare fosse bisessuale, sposata in seconde nozze con il costumista Adrian, dichiaramente omosessuale, e fidanzata con l'attrice Mary Martin).

Già da qui, è chiara l'ambizione di David Robert Mitchell che, dopo essersi fatto le ossa con i minuscoli, intelligenti The Myth of the American Sleepover e It Follows, affronta il neo-noir losangelino con modelli ambiziosi (Il lungo addio di Altman e Vizio di forma di Paul Thomas Anderson, La donna che visse due volte di Hitchcock, Mulholland Drive e Lost Highway di Lynch, Omicidio a luci rosse di De Palma, un tocco di Ellroy e di L.A. Confidential e i racconti e romanzi gotico-hollywoodiani di Clive Barker, e tanta, troppa musica alla Herrmann-Badalamenti-Donaggio) e intonazioni enciclopediche. Infatti, Under the Silver Lake, oltre a squadernare un prontuario, piuttosto presuntuoso, di quanto ha costruito il cinema d'autore sui gorghi socio-psicopatici della Città degli Angeli, si abbandona poi a una specie di delirio culturale, nel quale si affastellano tutta la musica pop posteriore alla controcultura (composta da un unico, magistrale Songwriter, raggiungibile in un castello in cima a una strada come quella di Il mago di Oz), l'ossessione dei codici più o meno satanici nascosti nelle parole del rock (ma anche nelle figurine dei cornflakes), le teorie del complotto, i messaggi subliminali disseminati nella pubblicità (puro Vance Packard, I persuasori occulti, anno di pubblicazione: 1957), paure atomiche e ricchi perversi che si fanno murare come i Faraoni, con stuoli di ragazze e montagne di cibo, la cultura hobo, il killer dei cani, il coyote, la puzzola, la donna gufo (che, oltre ai richiami egizio-esoterici, potrebbe anche essere un accenno al Kubrick di Eyes Wide Shut, tanto per non farsi mancare niente). Certamente ho dimenticato qualcosa, ma non Alice nel Paese delle Meraviglie (mangia il biscotto per entrare nel regno del surreale) che, come Il mago di Oz, non fa mai male.

Estenuante, esasperante e noioso, Under the Silver Lake è l'esercizio di un giovane troppo ansioso di dimostrarsi Autore, che non sa scrivere le sceneggiature, perde pezzi e fili narrativi per strada, e finisce per raccontarci tutto quello che avevamo già visto, letto, immaginato, grazie ai veri maestri.