Concorso

Yomeddine di Abu Bakr Shawky

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Egitto settentrionale, in mezzo al deserto. Beshay, che ha circa quarant’anni, passa le giornate in cima a una montagna di rifiuti, vagliando e recuperando rottami di qualche pregio tra gli scarti di un mondo col quale non ha un contatto diretto da quando era bambino. 

Beshay infatti ha la lebbra, ne porta le cicatrici incurabili sul corpo e sul volto, e ha vissuto praticamente da sempre in un lebbrosario, che è in sostanza una colonia segregata, o una gated community se preferiamo (come erano e sono tanti cronicari a tutte le latitudini), dove ci si prende cura anche di altre patologie – sua moglie Ireny è ricoverata in un padiglione per le malattie mentali –, e dove, in altri padiglioni, sono ospitati anche degli orfani. 

Nei confini protetti della comunità nessuno teme il suo aspetto, o il contagio, men che meno il piccolo Obama, un orfanello proveniente dalla Nubia, come dice la sua pelle più scura, che lo segue come un’ombra. Quando Ireny muore, e, qualche tempo dopo il funerale, la madre di lei si presenta al lebbrosario per pregare sulla sua tomba, una doppia epifania avviene nel cuore semplice di Beshay: da un lato si rende conto di essere tornato a essere solo, e dall’altro capisce che l’istituto ha mantenuto i contatti con le famiglie, almeno in alcuni casi. 

D’altra parte, nel dire a Obama «tutti hanno una famiglia» non solo si accorge della gaffe, ma anche di essere il primo a non avere più alcuna relazione con la propria. È questo il momento in cui matura la decisione di tornare a Qena, la città nel sud dell’Egitto dove è nato, per capire per quale ragione il padre, che aveva promesso di tornare a prenderlo, non sia invece mai tornato: lo capiamo in quello che è, purtroppo, uno dei passaggi più brutti del film, un flashback incorniciato da un mascherino flou goffissimo, un momento che si fissa a maggior ragione nella memoria perché avrebbe anche l’ambizione di strizzare l’occhio (e non è l’unica volta) nientemeno che a The Elephant Man

Raccolti i risparmi e bardato il fedele asino Harby, Beshay si avvia col carretto (e con il suo piccolo amico) verso il Sud del Paese, tra la gente comune, esponendosi al loro sguardo e al loro pregiudizio: l’attacco on the road è di nuovo, a suo modo lynchiano, un momento tra il comico e il surreale dalle parti di The Straight Story

Yomeddine in arabo vuol dire “il giorno della compensazione” ma anche “il giorno del giudizio”: «nel giorno del giudizio, gli animali vanno tutti in paradiso», dice ad un certo punto Beshay a Obama, lo dice del proprio asino, ma forse lo spera anche per sé, che nella vita è stato spesso trattato come un animale, tanto che, da bambino, i compagni, ma anche i suoi fratelli, lo chiamavano “la bestia”. La compensazione, il giudizio del titolo, sono in qualche misura anche il risarcimento a una fetta non indifferente di emarginati: per la sua opera prima, Abu Bakr Shawky torna a lavorare nel lebbrosario dove aveva raccolto i ritratti che compongono un suo breve documentario del 2008, The Colony, grazie al quale ha maturato la sensibilità per costruire un racconto che proprio di quelle testimonianze si nutre, per dimostrare che la lebbra è più un problema sociale che un problema medico, che il superamento della vergogna è più della guarigione clinica; e lo fa insieme ad alcuni di loro, che hanno accettato di partecipare in ruoli di finzione. 

Guardato per quello che è, Yomeddine è un esordio nel lungometraggio “piccolo piccolo, dal cuore grande” (anche se dietro c’è Tribeca, e distribuisce Wild Bunch), che non ha nemmeno la funzione di coprire la quota africana “postcoloniale”, una razione praticamente fissa del concorso cannense, anche perché, a ben vedere, lo sguardo del film non ha nulla di coloniale, né tantomeno qualsivoglia forma di appeal turistico. 

Il timore è che fuori dalle gated communities delle opere prime, dei piccoli esordi, schiaffato nell’agone della competizione festivaliera più importante al mondo, questo film piccolo piccolo, con tanti difetti e ma non senza pregi, sia visto come un imbucato, un outsider stritolato da un giudizio sovradimensionato.