Celine Daemen torna a Venezia dopo Eurydice – A Descent into Infinity, presentata lo scorso anno e rimasta senza premi, ma non certo passata inosservata (qui recensita da Dalmasso). La nuova opera Songs for a Passerby, che questa volta ha vinto il Gran Premio della Giuria Venice Immersive 2023, ha la stessa carica visionaria, e la stessa capacità di spingere il medium verso una strada che sta fra cinema espanso e media art; ma soprattutto, fa un netto passo avanti includendo al proprio interno la problematizzazione del corpo dell’utente.
Songs for a Passerby permette all’utente di farsi osservatore non visto di un paesaggio urbano perturbante in senso freudiano: perfettamente riconoscibile nella sua quotidianità ma insieme doppio straniante di qualcos’altro a cui non è possibile attingere e che per questo ci inquieta. Camminando lentamente, come sulle spine, incontriamo un flusso di persone in marcia che sentiamo mormorare, o forse pensare (il che ci trasforma negli angeli del wendersiano Cielo sopra Berlino), un cavallo agonizzante dietro un dirupo (come il cervo investito dall’auto nel lynchiano Una storia vera), due cani che giocano, e infine una folla di persone in metropolitana ciascuna delle quali è fissa nei propri pensieri leggibili o ascoltabili.
Con Daemon siamo arrivati al cuore di quello che significa usare i media immersivi: uscire da noi stessi, diventare angeli o fantasmi o spiriti di un sovramondo di immagini che risucchia il nostro, ridotto a mero punto di appoggio per l’osservazione. La VR da sola, in quanto dispositivo che sbarra i cancelli alla realtà, non potrebbe a spingersi oltre questo; l’XR di Daemon, invece, che sfrutta anche telecamere 3D per inviare il riflesso dell’utente all’interno del paesaggio virtuale (come faceva un semplice specchio nella fantasmagoria ottocentesca del dottor Pepper) apre infinite altre possibilità. Ci troviamo a dirigere il nostro stesso corpo ai fini della sua visualizzazione per comporre un paesaggio che lo includa nel modo migliore possibile; ci troviamo a completare il film girato da Daemon trovando il nostro posto nel mondo di solitudine e malinconia che l’autrice ha creato. Del costante lavoro che durante l’esperienza facciamo istintivamente abbiamo infine coscienza negli ultimi minuti dell’opera, quando ci troviamo di fronte al nostro riflesso come davanti a uno specchio rovesciato; a quel punto possiamo vivere ciò che tante pagine della filosofia novecentesca (da Husserl a Plessner) hanno cercato di dire: le persone hanno e insieme sono un corpo; lo usano, lo prestano, lo abitano, ma insieme vi si identificano. Nella versione di Daemon, le nuove tecnologie rivelano la dimensione eccentrica che è alla base dell’umano.