Concorso

Ad Astra di James Gray

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James Gray torna in Ad Astra a raccontare la storia di un’ossessione. Anzi due. La sua e quella del protagonista.

Se in Civiltà perduta l’esploratore Percy Fawcett si misurava ossessivamente con la sete di conoscenza e l’avventura come pratiche esistenziali, necessarie al suo essere nel mondo molto più o molto oltre l’obiettivo dell’esplorazione, qui l’astronauta Roy McBride (Brad Pitt) si misura con l’infinità dello spazio come unica dimensione in cui gli è possibile provare a darsi un senso. E come per Percy parte per l’Amazzonia completamente assorbito dal conflitto contro un nemico sconosciuto che sono i suoi stessi demoni, così Roy l’indistruttibile parte per la sua ultima missione spaziale per misurarsi una volta per tutte con le fondamenta della sua storia personale, con il suo personalissimo demone: l’eroico padre Clifford (Tommy Lee Jones) sparito nei meandri della galassia quando lui aveva appena sedici anni, e forse ancora vivo e indomito nei pressi di Nettuno.

Ancora una volta nella costruzione narrativa di un film di Gray, non è il confronto dialettico che interessa al regista, non è l’approdo ma il viaggio totalmente individuale del protagonista. Una questione esistenziale, psicologica, filosofica oltre che un racconto.

Non per nulla, come ha detto lo stesso Gray, in Ad Astra ci sono Conrad, Kubrick, Melville, e pure Joseph Campbell. Nella prefazione della prima edizione di L’eroe dei mille volti si legge: «Questo libro ha lo scopo di svelare alcune delle verità camuffate per noi sotto le spoglie della religione e della mitologia».

Questo è l’aspetto che interessa a Gray nel suo approccio alla fantascienza: misurarsi con il percorso che conduce alle grandi verità anche indipendentemente dall’arrivare a conoscerle. E non è forse neppure un caso che partendo da questo testo del 1949, cinquant’anni dopo, Chris Vogler elabori una sorta di manuale a uso degli sceneggiatori americani intitolato, guarda caso, Il viaggio dell’eroe, in cui ciò che dà un senso alle prove che l’eroe affronta di tappa in tappa è il ritorno ancora più di quella che lui definisce come “ricompensa”.

Nell’atto del ritornare – ed è probabilmente questo che giustifica anche la parte più retorica e volendo non necessaria di Ad Astra, il suo finale – Roy trova una ricompensa al proprio peregrinare nella conquista della possibilità di una “nuova” dimensione, quella dell’ordinario perché di fatto nello straordinario può anche non trovarsi nulla.

Dentro, intorno e intersecata all’ossessione di Roy e alla sua esplorazione, c’è naturalmente anche l’ossessione del regista per la ricerca della propria verità, quella dell’immagine che si basti nella sua perfezione. Gray persegue con Ad Astra la sua ricerca che affonda le radici nel passato per proiettare il cinema verso il futuro, tralasciando deliberatamente la verosimiglianza tecnologica, scientifica ed empirica in nome di una costruzione che sia prima di tutto estetica.