Concorso

Marriage Story di Noah Baumbach

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Il titolo giusto sarebbe stato “Scene da un matrimonio”. E non solo perché l’argomento – la rottura di una coppia, il cumulo di smarrimento e dolore che si rovescia su due vite improvvisamente ribaltate – rimanda evidentemente all’omonima pellicola di Bergman, ma anche e soprattutto perché il teatro gioca, nel film, un ruolo cruciale.

Sul piano narrativo, è da quel mondo che arrivano i due coniugi in via di separazione, rispettivamente regista (Adam Driver) e primattrice (Scarlett Johansson) di una compagnia che fa teatro off Broadway. Su quello concettuale, il teatro nel film si impone gradualmente come la metafora di una vita di coppia uscita dai cardini, andata fuori sincrono, dove la spontaneità viene soppiantata dall’artificio.

Separarsi, nel film di Baumbach, significa in primo luogo fare della propria vita un teatro: impersonare un ruolo – il padre modello e la madre impeccabile nei confronti del figlio, l’adulto disinvolto e maturo nei confronti del(la) partner – e al contempo affidarsi agli avvocati divorzisti, istrionici professionisti del matrimonio come spettacolo, messa in scena dove il coniuge rappresentato figura come una vittima inerme dell’egoismo dell’altro. Un teatrino della crudeltà, un mondo di emotività compressa e ridotta a pura apparenza, che Baumbach racconta con affilata precisione, in perfetto equilibrio tra commedia e dramma; attento alle figure di contorno (avvocati, amici, familiari) come alle intermittenze emotive dei due personaggi, alle increspature del loro desiderio, ai momenti di ostilità pura come a quelli dove l’affiatamento torna per un attimo ad affacciarsi sulla superficie di una relazione ormai sul viale del tramonto.

Dopo il pregevole The Meyerowitz Stories, Baumbach pareva destinato a raccogliere l’eredità di Woody Allen e Wes Anderson quale ritrattista di famiglie bislacche e simpatiche, comicamente disfunzionali. Qui invece si cambia registro: la disfunzione, presa all’origine e analizzata in profondità, genera sofferenza vera, la famiglia diventa un problema, la sua centralità una zavorra. Anche sul piano iconografico, la sterile ostinazione con cui il protagonista maschile vorrebbe tenere la famiglia a Brooklyn, osteggiando la volontà della ex moglie di vivere col figlio a Los Angeles, rimanda al percorso biografico di un regista sì molto newyorchese, per nascita, formazione e argomenti, ma determinato ora, come testimonia il film, a cimentarsi con temi di maggior respiro e universalità.