Concorso

The Laundromat di Steven Soderbergh

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Un documentario, Ecco cos'è, in realtà, The Laundromat. Certo, vi diranno che è “fiction ispirata a fatti realmente accaduti”, che è una commedia divertente e inquietante “con morale” (e perfino un comizio finale), che Meryl Streep è eccezionale come sempre, che Soderbergh gigioneggia senza pudore (come e più di sempre)... Tutto vero. Ma The Laundromat è sostanzialmente una specie di documentario. O meglio: una fantasmagoria documentata; una cronaca (ri)animata; una messa in ri-circolo di documenti formidabili che abbiamo già dimenticato, perché l'attualità è così, deperisce in fretta, mentre il cinema, in teoria, ha il potere di produrre un immaginario.

L'idea è quella di drammatizzare i Panama Papers. Di tradurre un documento monumentale e inattingibile (anzi 11,5 milioni di documenti, che raccontano transazioni finanziarie acrobatiche), pieno di numeri astratti e di aziende costruite come scatole cinesi (“gusci vuoti”), in una collezione di storie, aneddoti, persone concrete che vivono, amano, tradiscono, sfruttano i meccanismi dell'elusione fiscale planetaria. Col rischio evidente di mettere insieme un banale film a episodi (a tema). Evitato da Soderbergh con l'ormai frusto strumento del meta-cinema - e della narrazione "sguardo in camera" - qui utilizzato al meglio delle sue possibilità, per mettere in scena quella che viene presentata come «la vita invisibile del denaro», dove il credito è «il tempo futuro del suo linguaggio». Come siamo arrivati dallo scambiare mucche e banane al comprare banane dal futuro, per specularci sopra, non è certo Soderbergh che ce lo deve spiegare. Ma la diabolica coppia uber-liberista formata dagli speculatori Gary Oldman e Antonio Banderas ci accompagna in una visita guidata, piena di trovate, in quel mondo esclusivo in cui i ricchi diventano sempre più ricchi (approfittando delle leggi benevoli e dei paradisi fiscali) mentre i “miti” di evangelica memoria continuano a sognare di ereditare la Terra, magari morendo durante una gita a un lago, senza che ci sia un'assicurazione pronta a risarcire chi è sopravvissuto.

Perché, in effetti, si parte da qui, da Ellen Martin (Meryl Streep) e suo marito, uno di quegli uomini gentili e onesti che osservano la legge anche quando non c'è nessuno che la faccia rispettare, destinato a morire in un improbabile incidente. Ed ecco il dramma, che dà uno spessore alla storia, che cerca di mostrare gli uomini e le donne, le vite delle persone qualunque, dietro ai numeri, gli imbrogli, le società offshore, gli strumenti finanziari esoterici che noi miti non possiamo capire e utilizzare, perché non abbiamo i soldi e gli strumenti per farlo. Ma c'è anche e soprattutto la commedia (della vita), buffa, cinica, ironica, c'è la storia di un tradimento con truffa allegata, o la brutta fine di un uomo troppo avido, ci sono modesti impiegati che si ritrovano ad essere presidenti di 25 mila aziende fantasma, e c'è una donna che, ostinatamente, vuole capire.

Sì, certo, ci vedrete dentro cose già viste, da La grande scommessa in giù, ci ritroverete la furbizia di Soderbergh, che riesce sempre ad essere cinematograficamente detestabile (coi suoi vezzi, i ricami, i pezzi di bravura...), ma è indubbia l'efficacia dell'operazione, e anche la sua urgenza. Ai film in formato di predica (come l'arido santino di Varoufakis costruito da Costa-Gavras, visto in questi giorni a Venezia) preferiamo questa ludica libertà, vagamente sovversiva, che divaga troppo, ma riesce a usare i codici e gli strumenti dell'intrattenimento e della narrazione cinematografica (tardo-postmoderna) per denunciare l'aberrazione del sistema economico-finanziario in cui viviamo.