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Ferrari di Michael Mann - II

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È il tuo viso che voglio vedere. Lo dice il commendatore, Ferrari, sulla tomba del figlio, Dino, dopo avergli raccontato dei suoi incubi, in cui ritorna il passato, ritornano gli amici morti, i dipendenti morti. A Dino il padre confida che sogna anche lui, sì. E quell’ultimo desiderio, è il tuo viso che voglio vedere, come a confessargli che è soprattutto del suo volto che ha bisogno, è per il commendatore anche una condanna. Una condanna che appartiene a tutti gli uomini manniani: la necessità di vedere meglio e di più, e insieme la consapevolezza lancinante di non poterlo fare a comando, e che la visione nitida, chiara, evidente, è sempre più lontana, sempre più distante da sé.

In questa scena al cimitero, la scena di un uomo titanico che piange come piangeva John Wayne sulla tomba della moglie in I cavalieri del Nord Ovest, si svela quello che già si annuncia con l’incipit del film, un montaggio di materiale di repertorio di auto in corsa e il volto ringiovanito di Ferrari al volante di una di esse, con tutta probabilità un sogno, ancora una visione, sempre una visione: l’impossibilità di trovare (una) requie. Che significa non potere trovare (la) pace. Ferrari non trova pace perché gli manca il tempo. D’altronde, è noto, nel cinema di Michael Mann il tempo stringe, si contorce come qui si contorcono e si liquefano la geografia, i confini, le strade, l’asfalto su cui sfrecciano i bolidi della Mille Miglia. Non c’è mai stato il tempo necessario a vivere un’intera vita, a esercitare un mestiere, nei film manniani: in Ferrari, a cui purtroppo buona parte della stampa e degli spettatori riserva la stessa indispettita sufficienza tributata più di vent’anni fa a Alì, cioè all’altro anti-biopic manniano, il tempo è lo stesso abito che indossa il protagonista. Del film, il commendatore è il metronomo, non soltanto il termometro. Ferrari dà ritmo e lo toglie, lo contrae e lo libera, lo riprende per schiacciarlo e lo zittisce. Mai visto nel cinema di Mann un film così soggettivo: l’impressionismo di Alì e di Nemico pubblico – Public Enemies si assorbe completamente nella direzione di un interprete, Adam Driver, che nella sua distante e quasi spaventosa inviolabilità totemica conserva il magnetismo di Marlon Brando in Apocalypse Now.

Nessuna oggettività: come d’abitudine, Mann guarda in prima persona, non si fa guidare né dalla ricostruzione d’epoca, né dalle regole del genere, e sceglie la percezione, non il semplice narrato. E allora Ferrari, che qui è più e meno di un eroe, è un’immagine votiva e un uomo comune alla ricerca della perfezione, non può che rappresentare per Mann ancora una volta un’idea di mondo più grande del mondo, e perciò inadeguata, destinata a scontrarsi con la realtà. Destinata a sfracellarsi. Ferrari finisce per piegarsi davanti alla stessa pragmaticità della moglie Laura (Penélope Cruz) e dell’amante Lina (Shailene Woodley), due donne più forti di lui, due donne che capiscono la Storia e il cuore, e non soltanto gli affari. Ma come in tutti i film manniani, è proprio il cuore che rovina i piani: di tutti, del perfezionismo del commendatore, dei sogni, delle illusioni di un’esistenza diversa, della famiglia come chiesa dei sentimenti. Eccoli ancora qui, i sentimenti manniani: in Ferrari, dove perfino il mélo non ha il tempo sufficiente per svolgersi, i sentimenti sono veloci come le auto in corsa, giusto il momento di scrivere una lettera d’amore e d’addio, o di piangere sulla tomba del figlio qualche secondo in più, come avviene per Laura in uno dei classici primi piani prolungati manniani (ricordate quello di Billie - Marion Cotillard nel finale di Nemico pubblico?). Per Michael Mann anch’essi, i sentimenti, sono soluzioni di continuità in un reale che, agli occhi di Ferrari, non può esistere se non a sua immagine e somiglianza. Gli iati manniani hanno sempre interrotto il fluire delle cose, e Ferrari ne è pieno: un travelling notturno di una strada che sembra appartenere alla notte losangelina di Heat – La sfida, un brevissimo ralenti sugli occhiali del commendatore (come i tradizionali tre-quarti manniani sui volti degli attori, tornate con la memoria a Insider – Dietro la verità), una leggera carrellata in avanti sulla chioma di Lina sdraiata a letto sulla pancia (quanti sono i dettagli femminili nel cinema manniano, il collo di Tang Wei in Blackhat, i capelli di Gong Li in Miami Vice…), le sospensioni musicali che sembrano aprire voragini (qui ritorna ancora una volta Sacrifice di Lisa Gerrard e Pieter Bourke, da cui Mann pare per nostra fortuna non riuscire ad affrancarsi), l’attesa del verde al semaforo (in una scena costruita con la stessa suspense silenziosa della fuga in auto di John Dillinger dal carcere, fermo al semaforo rosso in attesa del verde mentre dall’altra parte della strada un’auto della polizia fa lo stesso, in Nemico pubblico).  

Per tutti questi motivi, Ferrari è l’ennesimo capolavoro di un cineasta che non si accontenta del dato e del documento e che cerca continuamente il proprio, di tempo. Un film che trova la sua vera conclusione con un dialogo, tra Ferrari e Laura, che ha lo stesso carattere testamentario del dialogo in Heat tra Vincent (Al Pacino) e Justine (Diane Venora) nel locale notturno ormai deserto, al ritorno del poliziotto dopo il sopralluogo sulla scena del crimine dell’omicidio della prostituta, «You don’t live with me. You live among the remains of dead people». Laura accusa il marito della medesima colpa, di averle sempre lasciato gli avanzi, dopo la fabbrica, dopo le amanti, dopo le macchine. E in effetti il commendatore è come Vincent Hanna, che era come Will Graham di Manhunter – Frammenti di un omicidio, che era come Frank di Strade violente: uomini solitari («I’m alone, not lonely», dice Neil a Eady in Heat) che credono di gestire il mondo a loro proporzione. E credono, per di più, di capirlo. Ma il mondo scivola via, e va avanti da solo, anche perché «Don’t let yourself get attached to anything you are not willing to walk out on in 30 seconds flat if you feel the heat around the corner», era il mantra di Neil in Heat. Il calore, e non soltanto dietro l’angolo, Ferrari lo sente 24 ore al giorno per tutta la sua vita, quello dei motori, quello dell’officina, quello dei circuiti, quello del denaro, e del matrimonio, del tradimento, del presente, del futuro. Non potrebbe farne a meno. Come Mann. Il calore del cinema.