Wie man Skulpturen aufnehmen soll: come si riprendono, o meglio, come si documentano le sculture. È un articolo di Heinrich Wölfflin del 1897, che ha segnato più di un secolo di rapporti non sempre lineari tra la fotografia (e il cinema) e le arti figurative; eppure, a dispetto di quel “man soll”, “si deve”, col verbo servile che sottolinea una prescrizione, ancora esiste un margine ampio di autonomia. Immaginiamoci un “Künstler” al posto di “Skulpturen”, ovvero che l’oggetto non siano solamente statue e rilievi o più in esteso le opere d’arte, ma gli artisti che le producono: il margine di autonomia e complessità delle scelte aumenta, addio alle limitazioni del dovere. Tuttavia per Wim Wenders, di fronte al gigantismo delle opere dell’amico Anselm – che è davvero secondario decidere se classificare come pittura, scultura o altro – il 3D era il come, era un dovere, da subito, come già era stato per Pina nel 2011, o per Cattedrali della cultura nel 2014, o per altri progetti più piccoli con cui sta nutrendo negli anni la propria filmografia.
Il cosa è sicuramente oggetto di un’elaborazione più complessa. Innanzitutto il confronto del regista con un medium, l’arte figurativa, che fu la sua prima vocazione, scalzata dall’amore per il cinema una volta giunto a Parigi; ma, soprattutto, cosa mostrare dell’opera di un artista che da cinquanta e più anni lavora instancabilmente, giorno e notte, su materiali disparati e dimensioni che vanno dal libro all’edificio in calcestruzzo? E l’artista dà carta bianca al regista, sapendo che non ne farà un biopic, e al tempo stesso nemmeno un documentario ovvio, con le talking heads e le opere accomodate a favore di camera. “Wim, tutte le volte che hai visto un film su un pittore, non hai pensato che le parti più noiose siano quando sei costretto a vedere un pittore dipingere?” pare abbia detto Kiefer, mettendo in chiaro una forte resistenza ad essere filmato, o meglio una sfiducia nella possibilità di catturare il momento creativo. D’altra parte, se ci pensiamo, ne Le Mystère Picasso, Clouzot ovviava, se così si può dire, alla “noia” del gesto pittorico con un escamotage tecnico, costringendo il pittore a lavorare su un supporto di vetro, togliendosi in qualche misura letteralmente di mezzo, passando in secondo piano, dietro l’opera, non solo per garantire la continuità del gesto nell’unità di ripresa, ma anche la sua pregnanza, ciò che rende significativo e necessario mostrarlo. Quello che Wenders riconosce come elemento da enfatizzare, nell’opera monumentale e multiforme di Anselm Kiefer, non è tanto il gesto creativo tradizionalmente inteso, quanto piuttosto quello che già implica un elemento distruttivo, quella finitura ossessiva che è un avvio verso la decadenza e la dissoluzione, la fissazione nella materia di una quarta dimensione, normalmente ritenuta incidentale, quella del tempo, principalmente attraverso l’esposizione alle intemperie, combustioni, fiamme libere, forni, colature di metalli roventi, tutto ciò che possa contribuire all’innesco di una seppur lenta, ineluttabile trasformazione.
Da più di cinquant’anni, dicevamo, le opere di Kiefer, inizialmente additate come nostalgiche, non fanno altro che indicare l’elefante nella stanza, l’ipocrisia con cui la società tedesca (ma in generale la società europea) si è reinventata immune dalla colpa. La materia instabile delle opere, il contrasto tra pesantezza dei materiali e leggerezza della forma, seguono la necessità di dar forma a frammenti di domande senza risposta o a risposte che sono a loro volta nuove inquietanti domande, all’interrogativo indiretto preso in prestito a Paul Celan, di cui la voce stessa dell’artista recita la poesia Wolfsbohne, “Bacca di lupo”: “sie schweigen”, “stanno zitti”; come tace Heidegger sulla propria relazione con il nazismo. Fin dagli anni ’60 Kiefer contribuisce ad allestire quel “Teatro del Destino” che è simbolicamente il mondo tedesco, dal quale però la stessa Germania tenta di sfilarsi. E insiste sullo specifico teutonico proprio nello stesso momento in cui invece Wenders fa di tutto per fuggire, in America, in Giappone; poi tocca anche a lui proseguire la propria ricerca monumentale fuori dal suo paese, in Francia, prima in un atelier gigantesco ricavato in un ex allevamento di bachi da seta, circondato da un parco immenso, a Barjac, in Occitania e infine in un colossale magazzino logistico della Samaritaine a Croissy, fuori Parigi, tradotto in una sorta di teatro di posa fuori dallo scorrere naturale del tempo.
Il tempo, appunto: se questo è la dimensione essenziale ma sostanzialmente inafferrabile nell’opera dell’artista figurativo, si ha l’impressione che Wenders si aspettasse, nel suo 3D che già gode della propria dimensione temporale, una sorta di epifania, che rimane tuttavia latente nell’aggirarsi con dolly eleganti e droni tra torri di bitume e piombo e rastrelliere su cui scorrono teleri grandi come campi da tennis. Ma la realtà è che nel tentativo di confrontarsi con il dispositivo creativo dell’amico artista, Wenders “si arrende” a una traduzione in termini audiovisivi della complessità sfuggente dell’opera, fa del dispositivo cinematografico una casa, un museo se non addirittura un tempio.
Per capire meglio il senso dell’operazione, come spesso accade, occorre recuperare il sottotitolo, Das Rauschen der Zeit, ovvero il rumore del tempo, lo scrosciare del tempo: eccola la dimensione fondamentale del film di Wenders, quella che non ha bisogno della tecnologia 3D, quella che tiene insieme il rito di questo tempio kieferiano, il suono. Non solo la musica di Leonard Küßner, le poesie di Celan e di Ingeborg Bachmann, lette, mormorate, echeggiate, o le voci immaginate delle Frauen di tessuto, piombo, ferro e rottami, ma il rumore dei gesti meccanici, l’eco degli spazi enormi e il silenzio, o quasi, quando è necessario che arrivi. Il suono che impasta senza soluzione di continuità i momenti rubati alla quotidianità del lavoro, le riprese coreografate tra le opere più impressionanti, i momenti elegantissimi di reenactment – con il figlio di Kiefer che interpreta Anselm da giovane e il nipote di Wenders che ne incarna l’infanzia –, personaggi che convergono talvolta con l’esperienza dell’artista da adulto. Non da ultimo, il suono contribuisce a reimmaginare i materiali di repertorio, spesso inseriti attraverso sovrimpressioni elaborate. Tra queste una vera e propria “scena madre”, o “scena prima”, generativa per l’arte kieferiana, alle Frauen kieferiane, mitologiche, eroiche, biancovestite e ordinatamente disposte è sovrimpressa una sequenza di frammenti di cinegiornale piuttosto famosi, con le Trümmerfrauen intente a sgombrare le strade di Berlino dai detriti dei bombardamenti, e a recuperare i materiali ancora utilizzabili: anche la costruzione enfatica del mito di queste donne, che forse non furono così tante, così laboriose e così felici, incapsula il silenzio colpevole di cui parla Celan: “sie schweigen”.
Questa contraddizione tra mito e silenzio è l’imprinting dell’artista, nato proprio nel 1945, esattamente come Wenders: l’infanzia di quella generazione, più ancora che di altre, è stata, come recita il finale del film “uno spazio vuoto, come gli inizi del mondo”; per Kiefer, che continua a inscrivere sulle opere titoli, nomi e profezie con la grafia e la leggerezza di un fanciullo, ancora esiste ed esisterà sempre spazio da riempire, nell’incertezza di trovare delle risposte.
Il ritratto del pittore e scultore tedesco Anselm Kiefer, uno dei più innovativi e importanti artisti del nostro tempo. La sua vita, la sua visione, il suo stile rivoluzionario e il suo immenso lavoro di esplorazione dell’esistenza umana e della natura ciclica della storia.