Ari Aster

Beau ha paura

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Con Beau ha paura, Ari Aster pare aver mutato il suo atteggiamento verso l’horror, il genere che lo ha reso famoso dopo un esordio folgorante, Hereditary, e il suo secondo lavoro, Midsommar, forse ancora più riuscito del primo. In realtà, il suo è un ritorno all’origine, a quei cortometraggi che fin dalla sua tesi di laurea hanno sempre esplorato l’incubo del quotidiano, spesso immerso in famiglie disfunzionali, talmente eccessive da trascendere nel paradossale.

Beau ha paura trae la sua origine e le scene iniziali dal quasi omonimo cortometraggio Beau del 2011, in cui un uomo restava barricato nella propria casa dopo il furto delle chiavi, dimenticate nella toppa al momento della partenza per andare a trovare la madre (di cui, nell’ultima inquadratura si vedevano le braccia, villose e scimmiesche). Gli scarsi sette minuti di Beau, aggiungendo predicato e complemento oggetto, diventano tre ore e dall’inquietudine grottesca dei cortometraggi, passando attraverso l’horror eccentrico e dilatato dei lunghi, si giunge a un’autentica commedia dell’incubo che permea ogni singola situazione, con la dichiarata volontà di sprofondare personaggi e pubblico in un’ambiguità di fondo impossibile da identificare con certezza. Il mondo di Beau è una proiezione condensata della sua psiche o è davvero spaventoso come appare?

In fondo, che il mondo del povero Beau, un bambinone di mezza età mai davvero cresciuto, zavorrato da una serie di traumi e di complessi originati dalla madre accentratrice, sia reale o soltanto percepito, poco importa. Joaquin Phoenix se lo fa morire addosso (ed è un merito) incarnandone la passività, assumendo spesso uno sguardo vacuo e perennemente terrorizzato, con la postura rigida e inarticolata, l’espressività biascicante. Le ecchimosi sul volto dovute all’incidente patito al termine della prima parte e che lo accompagnano per tutto il film, non sono tanto la prova inconfutabile di un accadimento reale, come potrebbe sembrare superficialmente, quanto il segno indelebile di insanabili ferite dell’anima, impossibili da rimarginarsi. Il suo viaggio, tentato inizialmente per raggiungere la madre in occasione dell’anniversario della morte del padre (e del suo concepimento: eventi che coincidono e che fanno della donna un’inquietante ape regina), diventa successivamente una corsa rallentata contro il tempo per riuscire a presenziare al funerale della donna. Prima di trasformarsi, nella lunga sequenza del bosco, in un percorso a tappe lungo l’asse della sua intera esistenza, per trovare le cause del malessere nel suo passato e giungere a ipotizzare scenari futuri che non vedranno mai la luce.

Nell’organizzazione strutturale di queste stesse tappe, Aster accede al versante del simbolico. Introdotto da un parto (dello stesso Beau, neonato), vissuto dal pubblico in soggettiva (e il pensiero corre, insieme a un brivido lungo la schiena, a Senti chi parla), scelta prospettica che dovrebbe inoltre essere indicativa di tutto ciò che seguirà da quel punto fino all’ultima inquadratura del film, l’intero lavoro è diviso in quattro blocchi, separati l’uno dall’altro da uno stacco in nero dovuto a un trauma e a una susseguente perdita di conoscenza del protagonista. Ognuno girato con uno stile differente, ognuno emblema di una fase di liberazione dal cordone ombelicale, che potrebbe essere anche immagine di un percorso di reale conoscenza di sé stessi, se solo il personaggio fosse capace di affrancarsi sul serio dell’influenza nefasta della madre. Così Beau, da assediato, bloccato nella sua squallida abitazione come se non fosse mai uscito dalla placenta materna, diventa dopo il primo incidente adottato, preso di peso dall’asfalto e trattenuto da una famiglia che con lui punta a sostituire il figlio soldato perso in azione. La fuga precipitosa dall’adozione, dopo aver negato un’altra volta la maternità, può condurre a sua volta soltanto all’orfananza, rappresentata dall’incontro con una compagnia teatrale che richiama il concetto già nel nome, rifugiatasi in una foresta, luogo d’elezione di tutta una tradizione di bambini rifiutati dai genitori (Pollicino di Perrault, Hansel & Gretel dei Grimm). L’ultima fase è quella del tradimento, con un maldestro tentativo di uccisione allegorica che si tramuta immediatamente in pentimento e subito dopo in pubblica condanna, confermando come il senso di colpa costante che assilla Beau non è altro che un destino inevitabile, pronto a compiersi come unica modalità di pacificazione delle proprie paure.

Se le singole fasi, tuttavia, sono godibili, spesso piene di invenzioni di regia (ad esempio, il frenetico movimento di macchina che accompagna Beau dal suo appartamento al negozio di fronte, attraversando una strada piena di criminali, folli, alienati, assassini e cadaveri in decomposizione) e di pennellate in cui si ravvisa lo humour del regista (tipo il cartone per alimenti O’Loha: the best of Hawaiian and Irish cuisine), il disegno globale soffre di una superfetazione megalomane non supportata da un equilibrio della scrittura. Beau, al contrario del protagonista di cui racconta le poco mirabili gesta, esagera, dilata, sgasa tronfio per poi restare sfiatato nel momento decisivo. È un disegno ambizioso dalla costruzione intricata che ha il sapore di una seduta psicoanalitica irrisolta, a volte poco intenso per condividerne le passioni, altre troppo artificioso per essere coinvolgente per tutta la sua durata.


 

Beau ha paura
Canada, Stati Uniti, 2023, 179'
Titolo originale:
Beau Is Afraid
Regia:
Ari Aster
Sceneggiatura:
Ari Aster
Fotografia:
Pawel Pogorzelski
Montaggio:
Lucian Johnston
Musica:
The Haxan Cloak
Cast:
Joaquin Phoenix, Patti LuPone, Amy Ryan, Nathan Lane, Kylie Rogers, Denis Ménochet, Parker Posey, Zoe Lister-Jones, Armen Nahapetian, Julia Antonelli
Produzione:
A24
Distribuzione:
I Wonder Pictures

Beau è un uomo molto ansioso, non ha mai conosciuto il padre e ha un tormentato rapporto con sua madre. Per andare a trovarla, intraprende un viaggio durante il quale dovrà affrontare varie minacce soprannaturali.

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