Perfidia in salsa dolceamara. Anno 1922, nella poco ridente Littlehampton, appena ripresasi dai postumi della Grande Guerra, uno scandalo infiamma la sussiegosa e modesta cittadina. Chi si diverte a tormentare la bigotta, non più giovanissima e virtuosa Edith Swan, con lettere di rara volgarità e virulenza (il più dicibile degli insulti la definisce “grande stronza fetente”)? Per lei, per i genitori e polizia non ci sono dubbi: è la vicina, la scostumata e sboccata irlandese Rose Gooding, senza marito (dice che è vedova di guerra) e con figlia a carico. Chissà se le cose stanno proprio così...
Sgomberiamo subito il campo da suggestioni gialle; in una commedia (siamo lontanissimi da Il corvo di Clouzot), così esplicitata nei suoi contenuti e “messaggi”, il o la colpevole è quasi subito intuibile, anche se ci vorrà una geniale trovata della sottostimata agente Moss a risolvere il mistero. In effetti, alla regista interessa descrivere in maniera comprensibile anche al più tardo degli spettatori l'atmosfera insopportabile, retriva e sessista di una piccola città bastardo posto, animata da una sapida vicenda processuale, definita all'inizio “più vera di quanto si pensi”. Curiosamente il razzismo è qui meno accentuato del sessismo. In paese vi sono coppie miste, giudici di colore e le poliziotte sono discriminate non per la loro origine asiatica, ma per il fatto di esere donne in un mestiere per uomini, meglio se conformisti.
Aldilà delle scorrettezze, delle bugie, della rivalità che intercorre tra le signore di disparata gentilezza (volano insulti, peti e dispetti peggio che tra carrettieri), le unisce infatti un idem sentire di far parte di una razza a parte, emarginata, costantemente richiamata a stare nei ranghi, in un mondo dove è sconveniente persino che una ragazzina suoni la chitarra (“io alla tua età mi provavo a svaligiare le case dei vecchioni bacucchi” le ridacchia dietro la madre Rose). E per quanto non se la mandino a dire (o meglio: a scrivere, a volte), si capisce che intercorre tra loro sempre una solidarietà e un'empatia sin troppo sottolineata dalla sceneggiatura.
E i rappresentanti del sesso forte? Se non son tonti e rigidi, sono di rozzo e protervo maschilismo, con loro campione, il collerico e reazionario Mr. Edward Swan, su tutti. Insomma, una commedia molto furbetta ma godibile, adattata alle menti progressive d'oggidì, orchestrata con la professionalità e la cura per la ricostruzione d'ambiente della corrente cinematografia Made In England. La fortuna della regista londinese Thea Sharrock, di evidente scuola teatrale (Io prima di te, 2016 e L'unico e insuberabile Ivan, 2020 sono i suoi precedenti lavori su schermo) è soprattutto quella di contare su di un cast di notevole empatia e aderenza. La sceneggiatura di Johnny Sweet consente agli interpreti deliziose colorature dei loro personaggi. L'irlandese Jessie Buckley risplende per combattività e salace risposta pronta, Olivia Colman (che, tra l'altro, divideva lo stesso ruolo, matura e giovane Leda Caruso, proprio con la Buckley in La figlia oscura) è una consumata istriona quando acquarella la sua zitella di passiva ipocrisia, illuminata ogni tanto da sorrisi e da lampi negli occhi di malcelata, goduriosa, cattiveria. E poi il terzo grande, Timothy Spall, con baffoni da ex militare, è magnifico nella sua arrogante stolida protervia che abbiamo imparato a “odiare” in tanti ufficiali e sottoufficiali di molti film britannici pacifisti.
1922. In una cittadina sulla costa meridionale dell’Inghilterra, Edith e altre sue concittadine iniziano a ricevere lettere oscene piene di scabrosità involontariamente esilaranti. I sospetti ricadono sulla turbolenta vicina di casa Rose che viene accusata del reato. Le lettere anonime scatenano una protesta che scaturisce in un processo...