Alex Garland

Civil War

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Il tempismo con cui Civil War di Alex Garland esce nelle sale, a pochi mesi dalle elezioni americane, è quantomeno sospetto. Anche perché il film si apre con il Presidente degli Stati Uniti (Nick Offerman), una sorta di maschera iperabbronzata e con il volto sommerso da uno spesso strato di fondotinta proprio come Donald Trump, che pronuncia un discorso alla Nazione saturo di banalità e menzogne. Senza contare che la genesi del progetto risale al 2018, nel pieno del primo mandato del miliardario imprenditore, promotore di una precisa agenda politica il cui obiettivo – come ha sostenuto Noam Chomsky – era «arrivare sull’orlo del baratro il più velocemente possibile».

E dall’orlo del baratro gli Stati Uniti sono altroché precipitati, in Civil War. Anzi, una seconda guerra di secessione insanguina il Paese da Est a Ovest. Non se ne conoscono le ragioni, ma solo le conseguenze. A Garland, ovviamente, interessa la sua natura allegorica e così stabilisce fin da subito un patto con lo spettatore piuttosto chiaro: la guerra civile è la sineddoche di uno stato universale di conflitto. Sin dalle prime immagini, il film mostra la sua natura letteralmente superficiale: tutto è inscritto infatti sulla superficie del visibile («il mio film è molto chiaro», ha dichiarato perentoriamente il regista britannico a «GQ Uk»), non ci sono significati nascosti ma solo negoziazione dialettica dei diversi punti di vista. Sono evidenti i riferimenti e le citazioni (sarebbe troppo lungo citarli), è manifesta l’ibridazione dei generi (la fantasociologia, il road movie, il film bellico nella variante della guerriglia urbana, senza dimenticare ovviamente i rimandi al western), indubbia la natura simbolica dell’ambientazione in un futuro talmente prossimo da assomigliare in tutto e per tutto al presente.

Eppure, quella che si combatte tra un governo oppressivo, dispotico e parafascista ed eserciti ribelli più o meno organizzati non è l’unica guerra del film. E, al fondo, nemmeno la più importante. Perché c’è una battaglia che si svolge su un altro campo, ancora più vasto e imponderabile: quello delle immagini. La protagonista Lee Smith (Kirsten Dunst) è infatti una reporter di guerra che, insieme alla giovanissima e inesperta collega Jessie (Cailee Spaney) e ai più navigati Joel (Wagner Moura) e Sammy (Stephen McKinley Henderson), intraprende un viaggio da New York a Washington con l’obiettivo d’intervistare e fotografare il Presidente.

Anche qui, Garland è talmente diretto da facilitare il compito di ogni recensore. A Kirsten Dunst fa pronunciare la battuta chiave, che leggermente parafrasata suona più o meno così:«Siamo giornalisti, dobbiamo registrare tutto per informare l’opinione pubblica e pertanto non possiamo tirarci indietro di fronte a nulla, omicidi e massacri compresi». E, puntualmente, allo spettatore, tappa dopo tappa, viene fornita una carrellata di esempi a non finire, mentre Lee e la sempre meno ingenua Jessie si avvicinano progressivamente al mysterium tremendum, al tabù figurativo per eccellenza, ovvero la possibilità di catturare il momento esatto del trapasso tra la vita e la morte.

Come detto, a Garland interessa soprattutto la polarizzazione dialettica che nasce dalla perfetta trasparenza del racconto. Gli esperti e i novizi, le parole (Joel e Sammy) e le immagini (Lee e Jessie), la fotografia digitale (Lee) e quella analogica (Jessie, che utilizza una vecchia Nikon da 35mm), la documentazione e la propaganda, il cinismo e l’idealismo missionario, la provincia e la metropoli, il dramma e l’ironia (l’alleanza tra Texas e California), la negazione (la small town in cui tutti vivono come se niente fosse) e la follia estremista (il militare fanatico interpretato da Jesse Plemons, non citato nei credits): tutto è presente, dosato col bilancino, misurato con fin troppa acribia.

Ma se il piano del racconto è puramente oggettivo (spesso reduplicato dallo sguardo incorporeo della macchina fotografica), il dialogo che s’instaura con lo spettatore si dispone su di un livello completamente soggettivo (è un caso che il film si apra con un’inquadratura fuori fuoco?), perché di fronte a tutte le polarità oppositive presentate ciascuno è invitato a porsi necessariamente nel mezzo. Un’idea potenzialmente vincente, ma con un problema insormontabile. Perché Garland sembra dimenticare l’esistenza di un’istanza fantasmatica che regola la rappresentazione e non si può trascurare se si riflette sulla natura e sul significato delle immagini. Ed è, ovviamente, quella del cinema (fin troppo facile evocare Chris Marker e la CameraEye di Godard), che crea sempre una copia imperfetta del mondo sensibile e chiama a un’interpretazione mediata della realtà non solo lo spettatore ma anche l’autore. Perché ogni ragionamento condotto attraverso le immagini impone anche una lente da scegliere, un diaframma da applicare, un filtro che vada ben oltre il piatto rendiconto fenomenologico e al quale Garland sembra voler abdicare con troppa facilità.


 

Civil War
Usa-Gb, 2024, 109'
Titolo originale:
Civil War
Regia:
Alex Garland
Sceneggiatura:
Alex Garland
Fotografia:
Rob Hardy
Montaggio:
Jake Roberts
Musica:
Geoff Barrow, Ben Salisbury
Cast:
Kirsten Dunst, Wagner Moura, Stephen McKinley Henderson, Cailee Spaeny, Jesse Plemons, Nick Offerman.
Produzione:
A24, DNA Films
Distribuzione:
01 Distribution

In un futuro non molto lontano, gli Stati Uniti sono coinvolti in un drammatico conflitto interno. Una nuova guerra civile tra il governo federale del presidente totalitario e gruppi di stati ribelli si combatte su tutto il territorio. In uno scenario tragico e pericolosissimo, alcuni fotoreporter e corrispondenti di guerra, guidati dall'esperta e disillusa Lee, partono da New York verso Washington per intervistare il presidente.

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