Baz Luhrmann

Elvis

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Nel documentario di Ethan Coen dedicato a Jerry Lee Lewis e presentato all'ultimo Festival di Cannes, a un certo punto passa un filmato d’archivio in cui un giornalista chiede a Lewis perché secondo lui soltanto Elvis sia diventato Elvis. La risposta tranchant del cantante è: «perché ha avuto un bravo manager!». Ecco, volendo semplificare il biopic di Luhrmann è una lunga digressione su questo punto. Al di là dell’opinione di Lewis – si sa che i rapporti fra lui e Elvis sono stati a lungo conflittuali – infatti la storia fra il cantante di Memphis e il suo agente è da sempre considerata come una delle questioni nodali per comprendere appieno il fenomeno Elvis.

E la vicenda umana, artistica, professionale e familiare della più grande star musicale del XX secolo in Elvis è per l’appunto tutta narrata attraverso le memorie e i racconti del Colonnello Tom Parker, che in punto di morte torna con la mente agli anni passati come manager di Elvis: dal 1955 fino al ‘77, anno della scomparsa dell’artista.

Il Col. Parker di Luhrmann, che ha il volto (pesantemente truccato) di Tom Hanksappare sin da subito come il villain del racconto e il suo ruolo è quello – ormai quasi comunemente accettato – del cattivo maestro: capace sì di fare di Elvis la stella che conosciamo, ma completamente ignaro del valore artistico e delle reali potenzialità del proprio assistito. Ma viene fuori anche come un uomo estremamente spregiudicatocinico e abilissimo nell’intessere relazioni e stipulare contratti oltre che avido, smodatamente attaccato al denaro e in grado, negli ultimi anni della vita di Elvis, di avere una commissione del 50% sui profitti del cantante.

Insomma come nel più classico dei racconti perché il ritratto dell’eroe risulti ancora più nobile e ammirevole bisogna partire scrivendo un ottimo cattivo. Ma che eroe è quello dipinto da Baz Luhrmann? Lasciando da parte la verosimiglianza o meno degli eventi (un film, anche un biopic può fare ciò che gli pare con i personaggi e le storie che mette in scena) l’Elvis interpretato da Austin Butler nelle mani del regista si riveste di un’aura quasi mistica e diventa – com’era ampiamente prevedibile conoscendo lo stile di Luhrmann – un’icona colorata, sovrabbondante e sfrenata dallo spiccato spirito tragico.

Stregato dalla black music e dal blues già da bambino, indiavolato interprete del rock ‘n roll negli anni degli esordi e poi gradualmente pilotato dal Col. Parker verso una dimensione più family friendly, adottando uno stile da crooner, Elvis appare per tutto il film come un’anima scissa e tormentata. Gli autori spingono soprattutto sul tasto dell’impegno politico, verso cui Elvis avrebbe tentato di avvicinarsi per tutta la carriera – profondamente angosciato dal clima infuocato di un’America segnata dalla segregazione razziale e dagli omicidi di Martin Luther King e Bob Kennedy – ma sempre frenato dalla prudenza e dall’opportunismo del proprio manager. Parker aveva infatti posto da sempre due semplici regole: mai parlare di politica e di religione.

La scelta è senz’altro figlia dei tempi e immaginare un Elvis engagé e totalmente immerso e debitore della cultura black – lasciando completamente da parte la determinante influenza del country per la formazione – è utile a dribblare qualche eventuale polemica intorno alla figura di Presley quale simbolo della whiteness e dell’appropriazione culturale bianca del rock. Non è un caso che la canzone che si sente sui titoli di coda sia In the ghetto, il solo brano autenticamente politico (seppur decisamente superficiale) inciso da Elvis in tutta la carriera.

Tuttavia quello che più piace a Luhrmann è, come sempre, l’apparato visivo. Che qui prende la forma di un carnevale pacchiano e barocco fatto di colori, movimenti vorticosi e musica (di Elvis ovviamente, ma spesso interpretata da artisti contemporanei), dove tutto è traboccante, quasi buttato via. E in cui il digitale non diventa solo una forma grafica, ma una vera e propria estetica dell’eccesso e dello spreco. Non che tutto questo non abbia un suo senso, del resto se si parla di Elvis la misura, la sobrietà e la moderazione non sono certo gli elementi da inseguire, tuttavia la sovrapposizione fra la figura del cantante e quella del mondo di cartapesta, lustrini, misticismo e sentimentalismo da soap opera (o da fumetto) che il film mette in campo, sembra semplificare e appiattire un po’ troppo la complessità che un fenomeno come quello di Elvis abbraccia.

Ma che sia la superficie scintillante e liscia dei colori e del puro e semplice entertainment a interessare al regista lo si capisce fin dal principio, quando si vede Las Vegas diventare la location principale del film. La storia non inizia a Tupelo in Mississippi, città natia di Elvis, e nemmeno a Graceland, nella leggendaria tenuta di Memphis, ma bensì a Las Vegas. Il luogo in cui Parker costruì la gabbia dorata che imprigionò Elvis per tutta la prima metà degli anni Settanta e dove quest’ultimo raggiunse la vetta più alta del proprio percorso artistico. Non a caso il concerto all’International Hotel di L.V. del 1971, forse l’apice della carriera del cantante, viene rimesso in scena da Luhrmann con una ricostruzione minuziosissima, resa ancora più verosimile dalla sbalorditiva somiglianza che Butler riesce a ottenere nei gesti e nelle movenze.

Un’attitudine, questa di giocare sulla mimesi fisica, che raggiunge il massimo del trasporto emotivo nel finale quando l’ultima celeberrima esibizione di un Elvis sovrappeso e sofferente – che canta Unchained Melody alla Market Square Arena di Indianapolis – viene prima rimessa in scena e poi accostata a quella reale, in un continuum di immagini che è quasi difficile da percepire.

Ma è solo un attimo, un lampo, un gesto di grazia che si esaurisce in un istante. Lasciando intravedere quello che Elvis sarebbe potuto essere ma, sfortunatamente, non è stato.


 

Elvis
Australia, Stati Uniti, 2022, 159'
Titolo originale:
Elvis
Regia:
Baz Luhrmann
Sceneggiatura:
Baz Luhrmann, Sam Bromell, Craig Pearce, Jeremy Doner
Fotografia:
Mandy Walker
Montaggio:
Jonathan Redmond, Matt Villa
Musica:
Elliott Wheeler
Cast:
Austin Butler, Tom Hanks, Olivia DeJonge, Helen Thomson, Richard Roxburgh, Kelvin Harrison Jr., David Wenham, Kodi Smit-McPhee, Luke Bracey, Dacre Montgomery, Leon Ford, Gary Clark Jr., Yola, Natasha Bassett, Xavier Samuel
Produzione:
Warner Bros
Distribuzione:
Warner Bros Italia

La vita e la musica di Elvis Presley (Butler), viste attraverso il prisma della sua complicata relazione con l’enigmatico manager, il colonnello Tom Parker (Hanks). La storia approfondisce le complesse dinamiche tra Presley e Parker nell’arco di oltre 20 anni, dall’ascesa alla fama di Presley che raggiunse un livello di celebrità senza precedenti; sullo sfondo un panorama culturale in evoluzione e la perdita dell’innocenza in America. 

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