Lav Diaz

Figli dell'uragano

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Perché abbiamo l’impressione che in due-tre immagini di Lav Diaz ci sia più cinema che in quasi tutto il cinema che ci capita di vedere ultimamente?

I figli dell'uragano viene presentato come “documentario”. E in effetti documenta un mondo, che potremmo definire post-apocalittico – alcuni luoghi delle Filippine sconvolti dalla furia della natura - se non brulicasse di vita, di ostinato attaccamento all’esistenza. Ma in questo “documentario” ci sono anche tutte le storie, le emozioni, le idee che altri provano a raccontare, suggerire, spiegare, senza sapere come guardarle e quindi come mostrarle davvero (e allora le storie zoppicano, le emozioni risultano posticce, le idee diventano luoghi comuni).

Stanno dentro le inquadrature insistite, il rumore della pioggia incessante (e del traffico sotto la pioggia), le parole rare, semplici e brutali nella loro dolorosa verità (una famiglia sterminata dal tifone, come tante altre, un villaggio semi-distrutto), i bambini e i ragazzini smarriti, le case, le cose, l’acqua assassina, sì, ma anche l’acqua per cucinare, bere, lavarsi, giocare.

Ci sono le storie e anche la storia. Perché ciò che mostra-racconta-rivela Lav Diaz sta nei luoghi devastati dai tifoni così come nella psiche della gente che li abita, un popolo perseguitato da una catastrofe continua, che prova a costruire sulle rovine (in attesa della prossima ineluttabile tragedia), come quei ragazzi sulla spiaggia che scavano fra i detriti e l’immondizia alla ricerca di chissà quale tesoro, o come quegli altri, in città, che vanno a pesca di plastica, sul bordo di strade inondate.

La formidabile densità di quelle immagini in bianco e nero. La capacità di dire così tante cose senza bisogno di dirle. Un piccolo scarto, un cambio di prospettiva, e ti sembra di vedere meglio, di capire ciò che prima non riuscivi a vedere. Scarti che costruiscono “l’azione”, che alimentano l’emozione di una storia che non ha bisogno di una trama, nel senso comune del termine (ma una “trama” c’è, un percorso, una traiettoria ideale, alla fine quasi un crescendo).

Stavolta Lav Diaz decide di guardare i bambini. Ragazzi che giocano con l’acqua che corre sull’asfalto, che si aggirano tra gli scarti, i pezzi di città in disfacimento, che ciondolano da soli o in compagnia, che portano taniche d’acqua potabile, ancora e poi ancora, che guardano il tempo che passa insieme ai genitori, che ricordano, sorridono, aspettano (cosa?), che si arrampicano e poi si tuffano dalle navi relitto lasciate dalla catastrofe.

I figli dell'uragano (che nel 2014 fu presentato anche al Torino Film Festival e che esce a ridosso della vittoria di The Woman Who Left alla Mostra di Venezia, a due anni dalla sua realizzazione) ti trascina in quel mondo e non ti molla più. Inesorabile. Ipnotico. Non ti chiede chissà quale adesione intellettuale, non "fa informazione” e men che meno folklore o antropologia, non è uno di quei documentari che guardano le cose e le persone da lontano, frettolosamente, con il distacco di “chi sa” di “chi capisce”, lasciando lo spettatore comodo nella sua posizione di osservatore impegnato. Qui siamo anima e corpo tra i sopravvissuti di un mondo vero, vivo, percepiamo il dolore, lo smarrimento, il fatalismo, così come sentiamo e vediamo la voglia di vivere di quei ragazzini, le vittime innocenti, esili macchie scure che si aggirano dentro quella vasta, grigia desolazione, esaltata dalla nitidezza delle immagini e dello sguardo di Lav Diaz.

 

 

Figli dell'uragano
Filippine, 2014, 143'
Titolo originale:
Storm Children: Book One - Mga anak ng unos, unang aklat
Regia:
Lav Diaz
Fotografia:
Lav Diaz
Montaggio:
Lav Diaz
Produzione:
DMZ Docs, Sine Olivia Pilipinas

Le Filippine sono la nazione a maggiore rischio tornado al mondo: ogni anno sono colpite da più di venti tempeste tropicali. Nel 2013 il tifone Yolanda ha scatenato tutta la sua potenza sull’arcipelago asiatico, lasciandosi alle spalle scenari di distruzione apocalittica.

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