A volte si tratta semplicemente di saper osservare le cose dalla giusta prospettiva. E sicuramente uno come Oren Moverman, sceneggiatore con Todd Haynes delle «sei vite» di Bob Dylan raccontate in I’m not there, è uno che di prospettive se ne intende. Un regista che ha dimostrato nei suoi due film precedenti, Oltre le regole - The Messenger e Rampart, di possedere la capacità di inquadrare il dolore di un America profondamente segnata dall’11 settembre, riuscendo a calibrare i suoi racconti tanto nella scrittura quanto nello stile.
Per mantenere la stessa coerenza narrativa anche nella sua terza regia, Gli invisibili, Moverman si è visto costretto ad abbandonare i primi piani inquieti e aggressivi dei suoi precedenti film per adottare uno stile da osservatore distaccato, quasi da documentarista. La storia è quella di George, un senzatetto newyorkese che passa le giornate vagando per la città, colmo di quella indifferenza per la vita di chi ha perso tutto e non ha più voglia di lottare. La macchina da presa segue, spesso da lontano, George, mentre l’uomo passa da una situazione all'altra praticamente invisibile agli occhi delle persone lo circondano. La prospettiva adottata è quella di chi vuol essere perfettamente aderente all’oggetto del racconto: un’esistenza ai margini che non può essere raccontata in modo attivo e diretto, ma richiede un notevole sforzo d’osservazione per raggiungere un livello di realtà spesso ignorato.
Moverman decide quindi di costruire il proprio film su uno sguardo distaccato, filtrato da folle di passanti o riflesso dalle vetrine dei bar, dove la cacofonia di New York con i suoi rumori e le sue frenetiche conversazioni, si intromette quasi in ogni sequenza. Lo spettatore si ritrova così a osservare senza poter in realtà vedere, a seguire una storia che non è realmente tale, a cercare una sorta di empatia di fronte alla messa in scena senza enfasi e senza retorica del dolore. Moverman vorrebbe restituire un’esperienza capace di commuovere e al tempo stesso cambiare il modo di vedere gli «invisibili», i senzatetto, i dimenticati, costringendo però il pubblico ad abitare una dimensione temporale scomoda ed eccessivamente dilatata, che rischia di accrescere la noia piuttosto che stimolare domande.
A conti fatti il film sembra perciò rimanere ingabbiato nelle sue idee, incapace di sviluppare un racconto o una riflessione che mantengano vivo l’interesse per tutta la durata, schiavo di un’eccessiva coerenza stilistica, che fatica a dare credibilità all’insieme e a raggiungere l’obiettivo prefissato.
George è un uomo disperato, la cui vita sembra non avere più senso. Non avendo niente a cui aggrapparsi, vaga per le strade di una New York indifferente. Senza nessuno che lo ospiti, cerca rifugio al Bellevue Hospital, il maggior centro di accoglienza per senzatetto di Manhattan. L'ambiente del centro è duro e pieno di persone sole che vivono nella miseria. Ma quando George farà amicizia con un veterano del centro, comincerà a riacquistare la speranza di poter ricostruire la propria vita…