Helmut Dosantos

Gods of Mexico

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Esiste un altro Messico, lontano e quasi libero da legami con quello che conosciamo più facilmente attraverso i media, le guide turistiche, le notizie politiche, la cronaca criminale? Un Messico in cui le radici precolombiane riescano ancora a mostrarsi nella loro irriducibilità e il paesaggio si riaffermi come casa comune, successione di luoghi i cui abitanti possano dirsi portatori di una cultura condivisa, partecipi, attraverso le loro azioni le pratiche quotidiane i gesti rituali, di un contesto naturale ancora in grado di tenere la modernità a distanza? A queste domande il film di Helmut Dosantos risponde individuando non una ma diverse nazioni, plasmate dalla rete di relazioni che i singoli individui mantengono con la terra, il paesaggio e lo spirito che li pervade.

Gods of Mexico è il risultato di un lavoro proseguito per quasi dieci anni prima di giungere a conclusione. Il materiale selezionato è stato organizzato con cura e precisione a costruire un percorso articolato in sei momenti, secondo una logica interna declinata nelle categorie della religione, del lavoro, dell'espressività; categorie sempre interconnesse a formare il tessuto forte del reciproco riconoscimento. Le divinità cui il titolo fa riferimento sono quattro e corrispondono ai quattro punti cardinali verso i quali lo sguardo si orienta nell'ideale panoramica da cui scaturisce l'immagine complessa di questo insieme di nazioni: Xipe-Tótec (l'Est), Texcatlipoca (il Nord), Quetzalcóatl (l'Ovest), Huitzilopochtli (il Sud). I quattro capitoli così intitolati sono compresi tra un prologo (Blanco/El Sur) e un epilogo (Negro/El Norte) dedicati particolarmente al tema del lavoro: la produzione del sale nel primo, secondo un'organizzazione e con tecnologie arcaiche (nei modi, tempi e materiali) e l'estrazione mineraria nel secondo, dove la modernità (macchinari, tempi e organizzazione del lavoro) prende il sopravvento prima che il mistero e l'estasi del rimescolarsi con la natura emergano con forza nelle immagini conclusive. L'azione quale elemento portante di queste due parti si riflette nelle scelta stilistica che fa prevalere in esse il ricorso ai primi e primissimi piani nonché al montaggio che introduce la dimensione narrativa in grado di mettere in sequenza i singoli gesti nella ricostruzione dell'apparato produttivo in tal modo messo in scena a evidenziare una dimensione collettiva atta ad agire sull'ambiente e sulla sua trasformazione.

Nei quattro capitoli centrali, al contrario, è la dimensione estatica a prevalere, accompagnata dal ricorso – come cifra della messa in scena – ai campi lunghi e lunghissimi, particolarmente atti ad attivare ed evidenziare uno sguardo volto a confondere figura umana e paesaggio naturale, fino a giungere, in alcuni momenti, a una sorta di annullamento/scioglimento della prima nel secondo. La figura umana vi è colta in un'immobilità che conduce alla sfera del sacro, espressione di una ritualità cerimoniale, portatrice di una sorta di domanda inespressa o – ribaltando la prospettiva – di  una risposta indecifrabile; figura come sospesa, a volte, sul luogo di lavoro tra un gesto e quello successivo, in presenza degli attrezzi necessari ma esposti in una nuda inoperosità.

L'attività umana vi è sostituita dall'incessante rivolgimento degli elementi naturali – terra  fuoco, aria, acqua – che abbracciano la presenza umana istituendo con essa una sorta di scambio energetico, plasticamente evidenziato nelle linee di composizione dell'inquadratura oppure (nel capitolo “Xipe-Tótec”) nell'opposizione simbolicamente esplicita tra lo spazio circostante e la figura della circolarità come delimitazione di quello, fondata però sull'infinito ritorno. Ecco dunque il susseguirsi dei grandi vasi panciuti e aperti, del cavallo che lento, in cerchio, aziona la ruota della macina mentre il centro dell'inquadratura è occupato da tre uomini semidistesi e immobili; e del pescatore seduto al centro della sua rete aperta sulla sabbia, contornato da un vasto spazio desertico. Compreso in questa dialettica celibe tra finito e infinito non manca il riferimento al giro della vita, che conduce a morte preludendo alla trasfigurazione – periodicamente riproposta – dell'uomo in divinità: dei a sua immagine e somiglianza più che uomini a loro immagine e somiglianza.

Affiora, in particolare nelle inquadrature dedicate a tale trasfigurazione ma più in generale nella modalità con cui la figura umana viene inquadrata nella cornice degli elementi naturali o mostrata in una sorta esposizione cultuale, tableau vivant del suo agire quotidiano, una tensione linguistica volta a saggiare il punto di contatto/cedimento tra l'eternità mortuaria caratterizzante la posa fotografica e il riflesso trionfante della vita liberato nella durata del piano cinematografico. Il cinema cattura e rende visibile il movimento, anche il più piccolo gesto, e insieme sa creare e modificare, attraverso il movimento della camera, l'idea stessa di spazio dando origine all'immagine  e all'ipotesi di senso che la permea. In Gods of Mexico ciò risulta particolarmente evidente nel maestoso movimento in avanti che, nel capitolo “Quetzalcóatl”, chiude sul cratere vulcanico, risucchiato dalla fenditura/cicatrice evidente sul fondo: immagine ipnotica, legata all'enigma del sesso ma anche del silenzio, evidentemente affine a quella dei due sposi nudi, colti in una posa mostrata come tale, anche nella fatica che comporta (il battito di una palpebra, il fremito di un braccio sollevato). Forza ipnotica di un enigma che è poi quello proposto dal film stesso, che cattura e porta con sé l'attenzione di chi guarda, che si carica passo dopo passo di domande e di un'attesa alla quale, nella sospensione irrisolvibile tra passato e presente, non è dato di trovare soluzione. O risposta. O quiete.


 

Gods of Mexico
Messico, Stati Uniti, 2022, 97'
Titolo originale:
id.
Regia:
Helmut Dosantos
Sceneggiatura:
Helmut Dosantos
Fotografia:
Diego Rodriguez García, Ernesto Pardo, Fernando Muñoz, François Pesant, Helmut Dosantos, Kacper Czubak, Martín Boege, Peter Eliot Buntaine
Montaggio:
Yibran Asuad, Helmut Dosantos
Musica:
Enrico Ascoli
Produzione:
Fulgura Frango, Narvalus Film
Distribuzione:
Lab 80 film con la partecipazione di FIC - Federazione Italiana Cineforum

Un documentario di osservazione che esplora differenti modi di resistenza alla modernizzazione nel cuore del Messico, ritraendo la gran diversità delle comunità native e afro-discendenti di tutto il paese. È un omaggio all'essere umano, al suo lavoro quotidiano e a coloro che lottano per preservare la propria identità culturale.

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