Barry Alexander Brown

Il colore della libertà

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È principalmente un film giusto Il colore della libertà, che in Italia probabilmente con il titolo originale Son of the South, ovvero “Figlio del Sud”, non avrebbe avuto la stessa visibilità. Giusto perché di contenuti e rinuncia volentieri a una drammaturgia serrata, lasciando al montaggio e alla sceneggiatura il compito di dire quel che la sostanza dei fatti sottrae alle dinamiche strettamente cinematografiche. Da Barry Alexandre Brown era lecito attendersi un’operazione che non cercasse in alcun modo di somigliare o competere con l’evidenza dello stile di Spike Lee di cui è il montatore prediletto.

E sebbene le intemperanze di Spike Lee permangano, a cominciare dalle perle di saggezza nonviolenta disseminate lungo tutto il racconto come cartelli stradali dilazionati, la mano di Alexandre Brown, già documentarista, nel dare slancio  cinematografico all’autobiografia di Bob Zellner, “figlio” degenere del profondo “sud”, nativo dell’Alabama e nipote di un membro del Ku Klux Klan, si sente proprio quando non è calcata. La strategia è quella di procedere in modo semplice, diretto, mettendo le immagini, i dialoghi e la costruzione della trama al servizio della contraddizione positiva del protagonista che sceglie di stare dall’altra parte, di “fare la cosa giusta”, appunto, al momento storicamente opportuno: non soltanto abbracciare la causa giusta del movimento dei diritti umani e civili nel 1961, quindi di seguire l’onda lunga che dal reverendo Martin Luther King Jr. e dall’attivista Rosa Park, la quale ha dato il via al boicottaggio delle corse segregate in autobus, agli studenti del locale college, monta e diventa una marcia di protesta anche per l’omicidio del contadino Herbert Lee.

Lo sforzo consiste nel lavorare su se stessi come altri giovani americani, bianco tra i neri e compromesso oltretutto dal ceppo di appartenenza, con un nonno (interpretato dall’anziano ma sempre durissimo Brian Dennhey) incappucciato e contraddetto dal genitore pastore che ha scoperto dai neri l’armonia melodiosa del gospel. Si tratta di agire presto, da giovani (donde la decisione di fissare un momento della vita del protagonista, senza restituirne la formula del biopic), lavorando sulle pratiche nonviolente e le decisioni di lungo corso, ovvero sul sapersi proteggere senza reagire con la violenza alla violenza. Agli spettatori non arriva tanto l’aspetto avvincente o epico delle gesta, che probabilmente neppure importa tanto all’autore, ma la quiete di una metodologia impegnativa, nell’immediato sconveniente, che consiste nel saper scegliere una strada sostenibile di protesta, a rischio della vita ma senza necessariamente il martirio.

Un film così concreto e pedagogico sul piano dell’efficacia della resistenza passiva, sul coraggio di saperle prendere anziché darle, a partire dalla scarsa convenienza di uscire dal proprio seminato razzista culturalmente radicato, non si era mai visto. Piuttosto che confrontarlo con Selma - La strada della libertà (ennesimo e conforme sottotitolo italiano generico) di Ava DuVernay, o con un qualsiasi film di Spike Lee, sarebbe più interessante cogliere la continuità profonda, laddove il cinema incontra la nonviolenza, quindi la non-menzogna, con I cento passi di Marco Tullio Giordana. Il facile testa a testa con opere che parlano di episodi, vicende e personaggi analoghi che hanno sporcato la storia americana degli stessi anni e negli stessi contesti è un sintomo del resto della scarsa propensione a dar spazio al maggior numero di tasselli di un mosaico ignobile e infinito. Come dire, visto un film sullo stesso argomento e con le stesse prerogative, visti tutti. E invece no. L’ondata di violenza razziale e l’orgoglio feroce nel perseverarla con il conforto delle istituzioni governative, poliziesche e scolastiche ha bisogno di essere sanzionata da tanti altri film, non solo di eroi cinematografici o di esemplari avvincenti, d’autore e non, quindi di solida divulgazione del discorso nonviolento a largo spettro.

Per dirla con una battuta del classico La città nuda di Jules Dassin, non a caso ripresa da S.O.S. - Summer of Sam di Spike Lee:  «Ci sono otto milioni di storie nella “città nuda”. Questa è una di quelle». Ecco, Il colore della libertà, o meglio Son of the South è un’altra storia, necessaria e culturalmente paradigmatica, da conoscere.

Il colore della libertà
Usa, 2020, 105'
Titolo originale:
Son of the South
Regia:
Barry Alexander Brown
Sceneggiatura:
Barry Alexander Brown (dal libro "The Wrong Side of Murder Creek" di Bob Zellner e Constance Curry)
Fotografia:
John Rosario
Montaggio:
Barry Alexander Brown
Musica:
Steven Argila
Cast:
Lucas Till, Lucy Hale, Cedric the Entertainer, Brian Dennehy
Produzione:
Jaba Films, Lucidity Entertainment, Major Motion Pictures Ltd., River Bend Pictures
Distribuzione:
Notorious Pictures

Tratto dall’autobiografia di Bob Zellner, Il Colore Della Libertà racconta la storia di un nativo dell’Alabama e nipote di un membro del Ku Klux Klan che s’inserisce nel centro per il movimento dei diritti umani e civili nel 1961. Ispirato da Martin Luther King Jr. , da Rosa Park e dagli studenti di una scuola superiore locale che marciavano per protestare contro l’omicidio del contadino Herbert Lee.

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