László Nemes

Immagini del silenzio

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«Scrivere una poesia dopo Auschwitz è barbaro – diceva Adorno nel 1949 – e ciò avvelena anche la stessa consapevolezza del perché è divenuto impossibile scrivere oggi poesie». Lo stesso filosofo tedesco tornò più volte, ritrattandola spesso, su questa celebre affermazione. Eppure la frase è passata alla storia. Perché affronta di petto il problema della rappresentabilità dell’orrore e perché riassume un interrogativo ontologico che ognuno di noi, più o meno consapevolmente, si porta dentro. Quale senso ha qualsiasi altra cosa – l’arte diceva Adorno, ma anche tutto ciò che non sia già stato ucciso, distrutto, eliminato – di fronte alla scelleratezza dei campi?

Claude Lanzmann, che di mestiere fa il regista, risponde che non c’è niente che abbia senso e che non c’è niente, soprattutto, che possa rappresentare l’orrore: non le immagini, non l’arte, non un tentativo (qualunque) di ricostruzione. La memoria può esistere solo nella testimonianza e solo se questa testimonianza è diretta. Può esistere solo nelle parole dei sopravvissuti, nel ricordo che diventa traccia, che si fa oggetto, che restituisce una flebile possibilità di sopravvivenza. Per questo in Shoah (1985) le parole dei sopravvissuti si sostituiscono, di fatto, alle immagini. Eppure, al contrario, c’è chi pensa che le immagini dicano tutto. Godard nelle sue Histoire(s) du cinéma (1998) oppone all’idea che non possa esservi nessuna immagine, la possibilità che il racconto dell’orrore sia fatto da tutte le immagini. Proprio perché il cinema, dice Godard, come tutte le arti, di fronte alla Shoah ha smarrito la propria missione: «la fiamma si [è spenta] definitivamente ad Auschwitz». La settima arte pur intravedendo il male si è ritratta e l’immagine ha perso la propria aura rivelatrice, salvifica, epifanica e portatrice di verità. Proprio per questo, dice JLG, dopo Auschwitz tutte le immagini dovranno per forza portarsi dentro l’esperienza di campi.

Il figlio di Saul affronta consapevolmente e con grande lucidità i concetti filosofici e i pensieri che hanno a che fare con il problema della rappresentazione ed è, anzi, proprio da questi interrogativi che prende le mosse. László Nemes – all’esordio con il lungometraggio ma già assistente di Béla Tarr – costruisce un’opera che prima di tutto, attraverso scelte estetiche radicali e per certi versi estreme, si pone come una riflessione sui concetti di rappresentazione e percezione.

Il film, ambientato ad Auschwitz sul finire del 1944, racconta la storia di Saul Ausländer, un ebreo ungherese membro di uno dei sonderkommando[1] del campo che, mentre aiuta a rimuovere i cadaveri da una camera a gas, crede di riconoscere nel corpo di un giovane ragazzo il proprio figlio. Da quel momento l’uomo cercherà in ogni modo di strappare il cadavere alla cremazione e, andando alla ricerca di un rabbino, di garantirgli una degna sepoltura.

Nemes – che gira in 35mm e in formato 1.33:1 – incollato per tutto il film alla nuca e al volto del proprio protagonista, si getta in una sfida difficilissima. Sa che la materia che maneggia è incandescente e per questo decide dare il risalto maggiore all’aspetto estetico. Senza trascurare la lezione di Lanzmann e dimostrando di aver compreso quella di Godard, il giovane regista ungherese filma l’interno di Auschwitz nell’unico modo possibile. Lasciando cioè che lo sfondo, ciò che sta dietro, il background di ogni inquadratura rimanga confuso in una permanente sfocatura. Per tutto il film vediamo a fuoco solo il protagonista e le persone con cui egli viene a contatto, mentre tutto quello che sta dietro, sia negli interni che negli esterni, assume la consistenza di un altrove sfumato e incorporeo.

L’annullamento della profondità di campo fa sì che ogni elemento che costruisce spazialmente, e quindi retrospettivamente, il campo di sterminio sia qualcosa che non solo non si può vedere, ma nemmeno toccare e capire. Perché non lo si può comprendere, ridurre alla ragione e all’esperienza. La sintesi fra pensiero godardiano e lanzmanniano, per quanto frutto di un gesto semplice, sembra raggiunta. L’immagine è in grado di esistere anche nel più profondo dei buchi in cui è affondata la storia contemporanea anche se, non per questo, ha la pretesa di fornire delle risposte. È un immagine che è traccia ma non per forza significato, è memoria ma non necessariamente testimone. Nelle sfocature risiedono il senso stesso della sua parzialità e, nel medesimo istante, la forza vitale, epifanica della propria essenza.

Al rigore estetico e al formalismo che Nemes impiega per curare la propria regia, fa eco un rigore narrativo che, proprio come lo stile, è curato nei minimi dettagli. Auschwitz è l’inferno sulla terra e Saul, che è la nostra guida, attraversa i gironi di questo inferno mostrandocene la sofferenza, il degrado e la miseria ma cercando di rintracciarvi un sintomo, un segnale, un indizio che sia il testimone di una salvezza possibile, di una via d’uscita da tutto quell’orrore. Saul sa che seppellire un corpo significa salvarlo. E salvarne uno significa salvarli tutti quei corpi. Salvarli dalla dannazione, dall’umiliazione e dall’oblio cui la “soluzione finale” li ha destinati. Lo stesso oblio a cui gli vien chiesto di dare forma, attraverso il lavoro di cremazione dei cadaveri e dell’occultamento delle ceneri. Per questo prende parte – nella ricostruzione che il regista fa di un fatto realmente accaduto – al tentativo di far uscire dal campo alcune fotografie, scattate clandestinamente, con l’intenzione di rendere prova al mondo di quello che stava succedendo ad Auschwitz e in tutti gli altri lager nazisti.

Nemes immagina che Saul sia uno di coloro che scattarono le quattro fotografie dell’agosto del 1944 che stanno alla base del libro di George Didi-Huberman “Immagini malgrado tutto” (2003). Didi-Huberman, che ha apprezzato il film a tal punto da scrivere una lettera di elogi lunga venti pagine all’indirizzo del regista, sostiene l’irriducibile necessità di produrre immagini, anche dall’inferno, anche nel mezzo del sonno della ragione. Non solo immagini come quelle, che sono le sole e uniche mai prodotte dai prigionieri di un campo che ci siano pervenute, ma anche quelle che scaturiscono dall’immaginazione, dalla possibilità e dalla capacità di pensare, elaborare, sognare. Proprio come Saul, che immagina che il ragazzo che giace fra i corpi inerti dei prigionieri sul pavimento della camera a gas possa essere suo figlio. E che sogna di poterlo strappare all’onta dell’incinerazione. Così, anche noi che guardiamo possiamo immaginare che dentro quella Babele infuocata dove si parlano tutte le lingue del mondo, dove tutto si confonde e dove tutto cessa di esistere che è Auschwitz, possa esserci ancora un briciolo di speranza.

Perché, come ha scritto Paul Celan rispondendo proprio ad Adorno, che la sofferenza dei campi l’aveva vissuta e portata dentro tutta la vita, una poesia è possibile anche ad Auschwitz. Ed è possibile anche in quella lingua, il tedesco, che per lui era la lingua madre (muttersprache) ma anche la lingua della morte (mördersprache) parlata dai suoi aguzzini. «La poesia – diceva Celan – in virtù della sua essenza, e non della sua tematica, è una scuola di umanità vera: insegna a comprendere l’altro in quanto tale e cioè la sua diversità; invita alla fratellanza e contemporaneamente al profondo rispetto dell’altro, anche là dove questi si manifesta come deforme o con il naso adunco».

 


[1] I sonderkommando erano unità speciali, formate da prigionieri, che nei campi di concentramento nazisti assistevano le SS nel processo di sterminio. I principali compiti dei sonderkommando erano quelli di scortare i prigionieri alle camere a gas, di ripulire le stesse camere dai cadaveri e occuparsi della cremazione dei corpi. A loro era riservato un trattamento speciale: venivano nutriti e vestiti meglio e le loro condizioni di vita erano generalmente migliori di quelle degli altri prigionieri. Il loro impiego era però molto limitato nel tempo: ogni tre mesi circa (in alcuni campi e per certi periodi molto più di frequente, anche tutti i giorni) i vecchi membri venivano uccisi e sostituiti da nuovi detenuti. 

Il figlio di Saul
Ungheria, 2015, 107'
Titolo originale:
Saul fia
Regia:
László Nemes
Sceneggiatura:
Clara Royer, László Nemes
Fotografia:
Mátyás Erdély
Montaggio:
Matthieu Taponier
Musica:
László Melis
Cast:
Levente Orbán, Marcin Czarnik, Sándor Zsótér, Balázs Farkas, Gergö Farkas, Jerzy Walczak, Todd Charmont, Urs Rechn, Levente Molnár, Géza Röhrig
Produzione:
Laokoon Filmgroup, Laokoon Film Arts
Distribuzione:
Teodora Distribuzione

In un campo di concentramento nazista, nei giorni della "soluzione finale", l'ebreo Saul Ausländer fa parte dei Sonderkommando, gruppi di prigionieri costretti ad assistere i nazisti nello sterminio. Mentre ripulisce un forno crematorio, Saul scopre il corpo ancora in vita di un ragazzo in cui crede di riconoscere suo figlio. Testimone della successiva uccisione del ragazzo, decide allora di trovare uno spiraglio di speranza di fronte all'orrore di cui è testimone: e in mezzo al caos infernale del campo, tra uomini e donne che lavorano a pieno ritmo al massacro di esseri umani, voltando le spalle alla ribellione di molti prigionieri, Saul cerca un rabbino che dia sepoltura al ragazzo, consapevole che il suo sarà l'ultimo gesto umano e pietoso atto della sua vita.

Il capolavoro dell'esordiente László Nemes, già collaboratore di Béla Tarr, vincitore del Grand Prix della giuria al Festival di Cannes e del Golden Globe per il miglior film straniero.

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