David Fincher

Mank (II)

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Provate per un attimo a far finta che un film come questo – per mille ragioni, dalla fotografia ai contenuti – non avesse come destinazione naturale ed inevitabile la sala cinematografica; sforzatevi di vedere, nella piattaforma che lo ospita, qualcosa di più di un intruso, un usurpatore sul trono e nel regno del grande schermo. Se ci riuscite, allora forse vi accorgerete che la piattaforma ospita anche un’altra fiction sulla Hollywood classica, una serie intitolata appunto Hollywood, scritta da Ryan Murphy. In entrambi i film personaggi e figure del cinema classico americano fanno da sfondo ad una storia di riscatto sociale e culturale; ma laddove Fincher poggia la propria vicenda su ipotesi plausibili (il contributo di Mankiewicz a Citizen Kane), Murphy reinventa totalmente l’universo della classicità hollywoodiana, trasformandolo nello scenario della clamorosa affermazione artistica di due categorie – omosessuali e afroamericani – in realtà, all’epoca, ampiamente discriminate ed emarginate. Ma la differenza più importante fra film e serie sta altrove, non dentro la fiction ma, per così dire, ai suoi margini. Sotto l’immagine di Hollywood, introdotta dalla formula “altri di Ryan Murphy”, ci viene appunto offerta la possibilità di vedere altre serie scritte da lui; sotto quella di Mank, in eguale posizione, una formula più evasiva – “altri titoli simili” – rimanda, ironia della sorte, a due film e a una serie firmati da David Fincher, il cui nome tuttavia non compare.

Insomma lo scrittore pare avere, nell’universo della serialità, conquistato quella centralità che il cinema si è sempre ostinato a negargli, a meno di opportuni, per il credito culturale che ne conseguiva, sconfinamenti nel campo della regia. È per questo che anche Mank può essere, come Hollywood, definita una storia di risarcimento, di una categoria professionale, quella degli sceneggiatori, negletta e trascurata: nei titoli di testa, nella considerazione del pubblico, nella valutazione dei produttori. Per motivi – questa la tesi del film – che avevano essenzialmente a che vedere con la loro intelligenza e irriverenza (per ben due volte il protagonista viene paragonato ad un buffone di corte), oltre che con uno spirito libero che mal si adattava alle esigenze di un lavoro di squadra. Lo sceneggiatore come uomo di ingegno in un ambiente conformista e intellettualmente piatto, che si piega alla mediocrità circostante usando l’ironia come forma di distacco e annegando nell’alcool i cattivi pensieri.  Certo, suona paradossale che tutto questo finisca per andare a scapito di Orson Welles, il cui prestigio nella storia del cinema di ieri e di oggi poggia esattamente sulle medesime credenziali: troppo intelligente, troppo irriverente, troppo indipendente.   

Possiamo allora leggere Mank come un tentativo di ricalibrare, se non la storia del cinema, almeno un suo episodio importante, sintonizzandolo sulla lunghezza d’onda di una professione che solo ora, con l’affermazione della serialità televisiva, sembra avere improvvisamente acquisito importanza. Quasi che i film classici non avessero a loro volta trame complicate ed appassionanti, e non ci fosse qualcuno a concepirle e metterle nero su bianco. Ragionamento che non fa una grinza, sebbene dietro Mank si legga in filigrana un desiderio più profondo, quello di ricondurre il tutto ad uno sforzo creativo rigorosamente individuale, qui addirittura confinato tra le quattro pareti di una casa nel deserto.

Una questione insomma di mero individualismo, che però nel cinema svolge un ruolo cruciale, poiché lì si gioca – anzi si è sempre giocata, sin dall’inizio del novecento – la partita che ha per oggetto la possibilità, per il cinema stesso, di avere uno spessore estetico, oltre che industriale. Se il grande film nasce semplicemente dal fatto che tutti, in una data circostanza, hanno fatto bene, molto bene, il proprio lavoro, è forte – alla luce dei parametri culturali dominanti – la tentazione di vederlo più come un oggetto uscito da una fabbrica che come un’opera d’arte.  Perché invece sia tale, è necessario che da qualche parte (regia, scrittura, interpretazione) esso rechi l’impronta del genio individuale, possibilmente ribelle, irriducibile alle regole, autodistruttivo quanto basta per consumare e dilapidare il proprio talento. Mank, come tanti altri film prima di lui, racconta soprattutto questa storia: la storia di quanto e come Hollywood provi ad esorcizzare e smentire la propria fama di fabbrica dei sogni.

Mank
Usa, 2020, 131'
Titolo originale:
Mank
Regia:
David Fincher
Sceneggiatura:
Jack Fincher
Fotografia:
Erik Messerschmidt
Montaggio:
Kirk Baxter
Musica:
Atticus Ross, Trent Reznor
Cast:
Ferdinand Kingsley, Sam Troughton, Tom Burke, Tom Pelphrey, Tuppence Middleton, Arliss Howard, Charles Dance, Lily Collins, Amanda Seyfried, Gary Oldman
Produzione:
Netflix
Distribuzione:
Netflix

La Hollywood degli anni '30 è rivalutata attraverso gli occhi del graffiante critico sociale e sceneggiatore alcolista Herman J. Mankiewicz, mentre si affanna a finire il copione di Quarto potere per Orson Welles.

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