Gabriele Mainetti

Mio eroe!

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La panoramica su Roma che apre il film, il classico punto di vista del supereroe, scorre su un respiro affannato e ansimante. È quello di un ladruncolo che fugge dalla polizia sul Lungo Tevere e che, per nascondersi, si getta nel fiume uscendone malconcio per il contatto con una sostanza radioattiva, ma con poteri di cui diventa consapevole solo il giorno seguente, dopo una notte di “passione”. Enzo Ceccotti, un nome comunissimo, rinasce supereroe come dopo le doglie di un parto. È un film sulla genesi di questo supereroe, quindi, quasi una origin story da fumetto americano degli anni Sessanta, l'opera prima di Mainetti (dopo le due prove nel corto – Basette [2008] e Tiger Boy [2012] – che gli sono valse parecchi riconoscimenti all'estero). Nascita e formazione di un eroe che è però sempre stato un perdente, come può essere un ragazzo di borgata pasoliniano: ultimo fra gli ultimi, figlio della periferia più povera e nera; grasso, più che “grande”, quasi a suggerire qualcosa di sonnacchioso, sfiduciato, che vive in una sorta di tugurio dominato dai colori del grigio e del nero e che usa il privilegio della forza sovrumana appena acquisita per riempirsi il frigo di budini alla vaniglia e proiettare a tutta parete i suoi amati film porno. Un individuo debole e solo, vittima di pulsioni basiche, un eroe suo malgrado che, a dispetto di quello che ci si aspetterebbe, il genere umano non sopporta. Irrompe nel suo antro buio una fanciulla coloratissima e bizzarra. La violenza della mala l'ha lasciata sola e indifesa, ma forte della lettura che lei sa dare del mondo: i colori che caratterizzano i suoi spazi e la sua figura sono quelli di un anime giapponese che i quarantenni di oggi ricorderanno benissimo. La sua conturbante innocenza contribuirà alla trasformazione del suo personale Hiroshi Shiba in Jeeg Robot d'acciaio, personaggio creato da Go Nagai, che corre “in aiuto di tutta le gente, dell'umanità” (come recitava la sigla del cartoon originale, cantata in modo struggente da Claudio Santamaria sui titoli di coda).

La Tor Bella Monaca bella e dannata – molto cinematografiche, fra l’altro, le sue torri che si stagliano in mezzo al verde – nella quale si muovono personaggi coatti e credibili, pur in un film  fantastico, è un punto forte di omogeneità, attraversato da una violenza senza scampo, quella delle cosche e quella trucida dello Zingaro. Delinquente allucinato, quest'ultimo, interpretato dal superlativo Luca Marinelli (che rimanda vagamente alla sua interpretazione di Non essere cattivo di Claudio Caligari): da lui non si riescono a staccare gli occhi di dosso, forse perché mitomane minato da fragilità, che aspira alla fama mediatica come un po' tutti noi, in quest'era folle, forse perché superbo nelle sue esibizioni canore pop anni Ottanta e denotato da un ambiente saturo del colore rosso del sangue e dalla presenza ostile e spigolosa di ganci e guinzagli.

La lotta che Jeeg ingaggia con questa sua nemesi sanguinaria ha risvolti persino comici, pur nel rispetto dovuto ai caratteri di un genere molto amato dal regista. Lo sguardo infatti, pur consentendo momenti addirittura di commozione, rimane esterno, divertito e autoironico. Un altro dei cortocircuiti, questo, che rendono straordinario il film. In modo  quasi paradossale, infatti, un  genere fra i più costosi oggi, viene realizzato da Mainetti con un budget esiguo e con uso parsimonioso e molto artigianale di effetti speciali: bravi stunt e buone le scazzottate tra i due protagonisti coreografate e provate come fossero passi di danza.

I meccanismi del genere e le scelte registiche, sostenuti da grinta ed energia, funzionano appieno: i piani dal basso a sottolineare la grandezza e la potenza del Jeeg nostrano, i movimenti interni alle inquadrature, il montaggio survoltato, le scene d'azione coinvolgenti. Ogni elemento, allo stesso tempo, supportato da trovate spassose e invenzioni visive, pare venato di una sottile ironia. Ironia condivisa dallo spettatore, che ripercorre tutti i pomeriggi preadolescenziali passati davanti alla TV e anche un po’ della sua vita da adulto aspettando magari che Jeeg Robot arrivi a sconfiggere i malvagi. Tanto che si perdonano anche certe ingenuità (la metafora del palloncino, fucsia come il vestito di Alessia, per esempio, prima “imprigionato” nella delusione di un rapporto sessuale attraverso cui riemergono le violenze subite e poi finalmente libero) che possono addirittura apparire perfette perché da cartoon anch'esse.

Si ride, si provano ribrezzo e raccapriccio (alcune sequenze sono violentissime come fossero mutuate da Gomorra), si vive la catarsi, poi si piange. E si esce sentendosi forti, forti per davvero: sapendo che il mondo fa schifo ma con addosso una maschera, quella di Jeeg. E “chissenefrega” se è lavorata all'uncinetto!

Lo chiamavano Jeeg Robot
Italia, 2015, 112'
Regia:
Gabriele Mainetti
Sceneggiatura:
Nicola Guaglianone
Fotografia:
Michele D'Attanasio
Montaggio:
Andrea Maguolo
Musica:
Gabriele Mainetti, Michele Braga
Cast:
Claudio Santamaria, Luca Marinelli, Ilenia Pastorelli, Francesco Formichetti, Salvatore Esposito, Antonia Truppo, Stefano Ambrogi, Maurizio Tesei, Gianluca Di Gennaro
Produzione:
Goon Films, Rai CInema
Distribuzione:
Lucky Red

Entrato accidentalmente a contatto con una sostanza radioattiva, Enzo Ceccotti scopre di possedere una forza sovraumana. E per lui, così chiuso e introverso, è l'inizio di una nuova vita, una benedizione per la sua carriera di delinquente. Qualcosa però in lui cambian quando incontra Alessia, convinta che lui sia l'eroe del cartone animato giapponese Jeeg Robot d'acciaio.

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