C’era una volta una donna sola, indipendente e appagata, una studiosa di narratologia che amava raccontare cosa c’è dietro le storie e condurre il pubblico alla conclusione che la mitologia è stata seguita dalla scienza e che tutte le creature che abbiamo immaginato sono metafore. Tilda Swinton, nei panni finto austeri ma dai colori rosati di Alithea, un’accademica londinese, arriva a Istanbul per una conferenza e imprevedibilmente vede, prima all’aeroporto e poi tra il pubblico, un’allampanata, fantasmatica figura in bianco che la fissa con occhi lucenti. «Sarà stato un Genio!», dice ridendo il collega che è andato a riceverla. Al bazar, il giorno prima della partenza, acquista un unico souvenir, una boccetta occhio di pavone bianca e blu che, quando la pulisce con lo spazzolino da denti, si apre e sprigiona un turbine blu e viola da cui si materializza un gigantesco Djinn (Genio) dalla pelle scura e le orecchie appuntite, Idris Elba, schiavo pronto a esaudire tre suoi desideri.
E qui comincia il lungo dialogo tra Alithea e il Djinn, entrambi in accappatoio, lei scettica, perché, è noto, la faccenda dei tre desideri nasconde sempre un trucco, una morale punitiva, lui insistente. Ma soprattutto si raccontano l’un l’altra: essenziale Alithea nell’archiviare un marito che se n’è andato e i cui memorabilia stanno tutti in uno scatolone (non tanto grande) di cartone, sontuoso, affabulante, accorato il Genio, che ha attraversato molti secoli, e regge, e bottiglie: schiavo di Sheba prima che arrivasse l’incantatore e mago Re Salomone a sedurla (e a sbarazzarsi del Djinn), poi di una fanciulla incauta nella reggia di Suleiman il Magnifico e infine della più giovane delle favorite di Murad IV, che gli chiese tutta la conoscenza del mondo e della quale s’innamorò perdutamente.
George Miller srotola davanti ai nostri occhi la sua favola anacronistica, fatta di meraviglie meccaniche e incanti ottici, di gioielli, sete e corpi sinuosi o più che opulenti, di segreti, vendette, avidità e di ostinata ricerca di conoscenza e amore, di Djin dolenti e appassionati e di un Genio in carne e ossa (Einstein) che persino il Genio della bottiglia scambia per un mago. Tremila anni di attesa è, come le Mille e una notte, un vaso di Pandora di emozioni e desideri antichi che una moderna, compunta studiosa si trova ad aprire cercando di non perdere il filo della razionalità scientifica. E George Miller lo lavora con un gusto antico del racconto, della fiaba, ma dispiegando tutta la potenzialità degli effetti speciali digitali, come se Il ladro di Bagdad di Powell &Co. avesse incontrato Mad Max Fury Road. E il Djin Idris Elba si adatta al ruolo e ai tempi: somigliantissimo a quello del film di Powell, ma fatto di materia elettromagnetica (e perciò sopraffatto dalle onde che lo assalgono una volta arrivato in una città contemporanea) e con felpa e cappuccio da aitante vicino black, mentre la diafana, solitaria Alithea di Tilda Swinton (tutto fuorché zitellesca) intreccia i rami di mito e scienza in un nodo inestricabile. Tratto da un racconto di Antonia Byatt, Tremila anni di attesa sta in bilico tra il cinema del passato e quello di oggi. Ma George Miller, come dimostrò con Babe, è un gran narratore di fiabe.
Alithea incontra un Djinn, un Genio, che le propone di esaudire tre suoi desideri in cambio della libertà. Alithea è fin troppo colta per non sapere che i sogni da esaudire finiscono sempre male. Deciso a convincerla, il Genio inizia a raccontarle il suo passato straordinario e Alithea, sedotta dalla sua storia, formula il più sorprendente dei desideri…