Era il grande sogno irrealizzabile di Flaubert, scrivere un “roman sur rien”, un romanzo sul nulla, che fosse pura forma, puro stile, pura bellezza. Un sogno irrealizzabile e utopico perché sempre, inevitabilmente, la trasposizione in parole di un niente, per quanto atematica e destrutturata, diventa qualcosa. Così Untitled, che si autoproclama documentario sul nulla – anche se non, in questo caso, per ricercare la forza intrinseca dello stile -, finisce suo malgrado per essere un documentario su qualcosa, o forse, meglio, su tutto.
Privo di un progetto di fondo da cui prendere le mosse e secondo il quale porsi nell’osservare il mondo, privo di un messaggio da mediare, il film di Michael Glawogger semplicemente osserva. La macchina da presa riprende ciò che le si para davanti. Case, strade, gesti, lavoro, divertimento, musica, morte, treni, preghiere, sport, tecnologia, sonno, cibo, disabilità, pulizia, esseri umani, animali e assenze di vita: tutto ciò che esiste ha diritto ad essere impresso su pellicola. Non c’è un tema – e questo è il solo senso di nulla che si possa ottenere – ma c’è tutto.
Attraversa molteplici Paesi, Untitled: dall’Austria, ai Balcani, all’Italia, passando per il Marocco, giunge nell’Africa Occidentale, tra Senegal, Guinea, Sierra Leone e Liberia. E lo fa, grazie al montaggio di Monika Willi (che dà in questo modo vita a un’opera postuma, a tre anni dalla scomparsa di Glawogger a causa della malaria), in maniera scomposta, senza percorrere un viaggio che segua una latitudine lineare, senza nemmeno mai rivelare allo spettatore in quale Stato ci si trovi. Le usanze e i gesti si mescolano, uguali di qua, come di là; le lingue non hanno bisogno di essere tradotte, poiché non c’è da capire, ma solo da osservare. Dalla luce abbacinante del deserto, si passa alle notti più oscure; dall’altissima definizione, a riprese amatoriali troppo zoomate; dalle vastità di sabbia, alla neve. Tutto si amalgama, tutto diventa uguale, mentre la voce narrante commenta sensazioni e sentimenti, impressioni personali ma riconoscibili per chiunque, stralci di diario che si fanno universali. Cercando il niente, cercando il luogo in cui nascondersi e dove si possa essere nessuno, Untitled approda pertanto alla conclusione che “in nessun posto esiste il nulla”, e diventa la faccia opposta della medaglia: un documento sull’esistenza, sulla vita in tutte le sue parti: l’uomo e l’animale, l’incontro e lo scontro, la vita e la morte, la natura.
Un’utopia, quella del film sul niente, che si scontra con un’altra monolitica realtà: l’essenza stessa del cinema che sempre, nel suo operare una scelta visiva e di montaggio, finisce per creare qualcosa. Così le scelte della Willi, consapevolmente o meno, danno vita a un prodotto che è essenzialmente un film ad memoriam, un epitaffio nella maniera di Glawogger. La dura rappresentazione della morte animale, in particolare della capra, non può non far tornare in mente il truculento spaccato di Workingman’s Death e quell’atteggiamento mai timido davanti alla brutalità tutta terrena e concreta della fine di un corpo. Allo stesso modo, davvero tante sono le trovate – sia di ripresa da parte dello scomparso regista, che di postproduzione – che rimandano a un film come Megacities: i lunghi carrelli orizzontali lungo le strade, le lotte tra bestie e tra uomini, l’attenzione ai gesti minuziosi, fintanto da riprendere in toto la scena del setacciatore, di sabbia in cerca di diamanti, qui, di curry, nel lungometraggio del 1998.
La “ri-scoperta del mondo” attraverso un viaggio tra Italia, Balcani e Africa che ha l’imprevedibile e la curiosità come uniche regole. A raccontarlo per la versione italiana una voce narrante d’eccezione: la cantante Nada.