Danny Boyle

Uomini soli

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È vero: ogni poster pubblicitario, pagina web, articolo di giornale o trailer cinematografico indica, giustamente, il nome di Danny Boyle alla regia del film. Eppure Steve Jobs è un’opera decisamente calzante e coerente nel percorso artistico e autoriale non del suo regista, ma dello sceneggiatore, Alan Sorkin.

Il film prende le mosse proprio dallo scheletro stilistico già adottato per The Social Network (2010), confermando una certa attrazione che Sorkin nutre per informatici miliardari che hanno rivoluzionato la società contemporanea con le loro idee, pur sacrificando buona parte della loro vita e del loro carattere in nome di una solitudine spinosa e cinica.

Sorkin, come già fece nel film di Fincher, pone al centro del racconto l’essere umano prima ancora che il suo percorso o la sua storia. Zuckerberg e Jobs sono messi completamente a nudo e indagati dallo sceneggiatore con un'attitutine tanto disinteressata alle loro carriere o alla crescita professionale quanto incuriosita dalle loro personalità. Sorkin dipinge entrambi i personaggi (e di conseguenza i film) come se fossero lo specchio delle loro creazioni.

Se infatti bastava il breve ed efficace prologo di The Social Network per capire che l’intero film sarebbe stato incentrato sulle strutture di riferimento di Facebook (il parlare logorroico della chat, la non corrispondenza tra domanda e risposta, gli eventi, i video, e soprattutto una solitudine di fondo che non riesce a mascherarsi nonostante le numerose relazioni all’interno del web), qui il procedimento è lo stesso. Tuttavia, Steve Jobs non ha inventato un sito Internet, ma un computer, e di conseguenza il film procede in maniera schematica e ripetitiva per tutti i suoi tre atti. L’informatico statunitense è costretto a confrontarsi sempre e meccanicamente con le stesse persone, una sorta di rituale maledetto che lo costringe a fare i conti con la realtà.

It’s not binary» viene urlato da Steve Wozniak (un ottimo Seth Rogen) verso la fine del film, in quella che ne è la battuta simbolo. Ma la mente di Jobs, invece, binaria sembrerebbe proprio esserlo. Una mente frenetica e calcolatrice che riesce però a pensare in maniera differente (ogni riferimento allo slogan di lancio del Mac non è puramente casuale) rispetto a tutte le altre: un’immagine identica a quella del computer da essa partorito.

Per questo motivo Steve Jobs è un film meno serrato e freddo di The Social Network, ma piuttosto un’opera multitasking (da ogni porta entra un personaggio diverso con i quali fare i conti su problematiche differenti), modellata per l’appunto a partire dalla figura di un computer: affascinante, apparentemente perfetto, utile e potenzialmente alla portata di tutti. Termini, questi, con i quali si potrebbe tranquillamente descrivere un prodotto confezionato dalla casa della mela. Oppure, volendo, la personalità del suo stesso ideatore. O ancora, al termine dell’equazione, la struttura dello script di Sorkin: un universo di suoni e immagini, inventato e modellato da un uomo solo (in entrambi i termini di accezione).

Steve Jobs
USA, 2015, 122'
Titolo originale:
id.
Regia:
Danny Boyle
Sceneggiatura:
Walter Isaacson, Aaron Sorkin
Fotografia:
Alwin H. Küchler
Montaggio:
Elliot Graham
Musica:
Daniel Pemberton
Cast:
Katherine Waterston, Michael Ståhlberg, Jeff Daniels, Seth Rogen, Kate Winslet, Michael Fassbender
Produzione:
Cloud Eight Films, Decibel Films, Management 360
Distribuzione:
Universal Pictures, Decibel Films

Steve Jobs al culmine della sua carriera. Il ritratto intimo dell'uomo che è considerato l'artefice della rivoluzione digitale raccontato dal backstage del lancio di tre prodotti epocali. 

Danny Boyle dirige il biopic su Steve Jobs, scritto da Aaron Arkin. Ad accompagnare Michael Fassbender (Steve Jobs), un cast memorabile tra cui Kate Winslet, Jeff Daniels, Michael Stuhlbarg.

 

 

 

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