Tizza Covi, Rainer Frimmel

Vera

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Vera Gemma, una gemma vera, una bestiola ferita, una chimera. La figlia di Giuliano, l’eterna figlia. Entra in scena di spalle, Vera, le sue extensions bionde e lo stetson come lo portava papà, e trascina la macchina da presa dentro al circo della vita, o meglio, dentro al baraccone di una certa vita romana, di serate soi-disant eleganti, di lustrini e tacchi 12, musica a palla, lucine e botulino, sosia improbabili di personaggi hollywoodiani, cascami defilippiani in regime di esterna o di ospitata e VIP dall’importanza personale mai davvero verificata (per dire, si riconoscono Arisa, un finto Johnny Depp e un parrucchiere “delle dive” dalla pelle cotta dalle troppe lampade). Eppure Vera non sembra davvero convinta di volersi fare strada nel mondo dello spettacolo, anzi sembra che qualcosa dentro di lei la porti da subito a sottrarsi a questo demi-monde dove apparire è un dovere, e magari cercare la vita nell’empatia della bella, giovane barista da cui prende uno shot di tequila (che non ha, per ragioni di generazione, alcuna idea di chi sia Eva Robin’s) e poi, magari, qualcosa in più, per noia o per solitudine, dall’altrettanto giovane tassista, che no, con lei non ci vuole dormire, ma una sigaretta sotto casa con lei se la fuma.

L’eccesso rutilante e pacchiano da un lato, le persone semplici e determinate dall’altro. È solo una delle dicotomie che danno forma alla complessità del personaggio di Vera, protagonista del nuovo lungometraggio di Tizza Covi e Rainer Frimmel, premiato  a Venezia 79, nella sezione Orizzonti, per la miglior regia e per la miglior interpretazione femminile. Come valutare un’interpretazione, quando la persona premiata recita nel ruolo di sé stessa? Il parametro più immediato, di fronte a Vera è la generosità assoluta con cui la protagonista si offre all’obiettivo, allo sguardo e all’ascolto del pubblico; che è una generosità che si riflette anche nel plot: una generosità che crea in lei l’illusione di poter fare dell’uomo con cui è in una relazione un regista stimato, o quella di poter aiutare un bambino di borgata e la sua famiglia, ignorando i segni che la realtà le invia, e che il suo servizievole autista (Walter Saabel) sembra raccogliere prima e meglio di lei. La realtà, ecco. Il film di Covi e Frimmel, come e più dei precedenti (tra i quali La Pivellina, 2009 o Mister Universo, 2016) pur abbeverandosi di porzioni, di segmenti di realtà, la trasfigura, la ricolora con la grana sbavata dell’immancabile pellicola 16mm, la distorce in sequenze palesemente didascaliche o caricate al limite del grottesco – come i due provini, uno con Ragazzi e Hofer per un improbabile film tratto da Schopenhauer, e l’altro davanti a un regista teatrale arrogante che, guarda caso, non apprezza la verità del monologo di Scarface che Vera gli recita, la voce che emerge, precisa, dietro il volto quasi impassibile – ma non disattende per questo le premesse del titolo, e del nome di chi quel titolo lo abita: anzi è un’occasione paradigmatica in più per ricordare che verità e realtà non sono la stessa cosa. Paradigmatica perché i due registi scelgono una protagonista e un corpo difformi, o meglio, conformati a un ideale preciso, «da bambina ero innamorata di Eva Robins», per certi versi imperturbabile e per altri in continua trasformazione: una maschera mutante adottata in giovanissima età per compiacere dei genitori a loro volta ossessionati dall'apparenza, e da allora mai dismessa, una protezione in più per un cuore semplice e generoso.

I genitori: Vera è innamorata pazza del padre, ossessionata dal suo ricordo fantasmatico (evocato attraverso gli 8mm di famiglia) al punto che lo pseudo-fidanzato aspirante regista e fedifrago (Gennaro Lillio), ne sembra una versione rivisitata e scorretta, sotto la gigantografia che domina nella stanza da letto. E allo stesso tempo quel padre è ben più ingombrante di quella foto, come emerge a più riprese e prende una forma plastica, didascalica e dolorosa al tempo stesso, nella conversazione con Asia Argento, amica di sempre, nel détour al Cimitero degli inglesi, a commentare il fatto che il figlio (August) di Goethe sia ricordato attraverso il genitivo (Goethe Filivs) e non con il suo nome proprio, e poco più in là una donna sia la moglie di qualcuno: il genitivo come origine e come gabbia, un guinzaglio linguistico da cui sembra impossibile slegarsi. Ma anche quando cerca, dopo un incidente in borgata, di costruire una relazione di confidenza con il piccolo Manuel, quello è pur sempre il figlio di qualcun altro, di quell’altro disposto a usare il bambino strumentalmente, a tradire la buonafede della donna, a lasciarla sola, quasi senza coordinate, in un appartamento svuotato. Sola, ma pronta a rialzarsi, con una cicatrice in più nell’anima, ma ben protetta dalla corazza, dalla maschera. Sola ma più umana, più Vera.


 

Vera
Austria, Italia, 2022, 115'
Regia:
Tizza Covi, Rainer Frimmel
Sceneggiatura:
Tizza Covi
Fotografia:
Rainer Frimmel
Montaggio:
Tizza Covi
Musica:
Florian Benzer, Michael Pogo Kreiner
Cast:
Vera Gemma, Asia Argento, Annamaria Ciancamerla, Sebastian Dascalu, Daniel De Palma, Alessandra Di Sanzo, Giuliana Gemma, Gennaro Lillio, Walter Saabel
Produzione:
Vento Film
Distribuzione:
Wanted

Vera vive all'ombra del suo famoso padre. Stanca della sua vita superficiale e delle sue relazioni, finisce alla deriva nell'alta società romana. Un giorno dopo averlo ferito in un incidente stradale in periferia, stringe un'intensa relazione con un bambino di otto anni e suo padre. Ma presto dovrà rendersi conto che anche in questo nuovo mondo è solo uno strumento per gli altri.

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