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Nel nome di Dio? Le inquietudini di un autore sempre giovane

Per Bellocchio nella religione non ci sono né libertà o scelta, né tantomeno salvezza o redenzione. Nella religione ci sono solo parole che con la forza della persuasione creano prigioni invisibili e inscalfibili. Ai suoi occhi anche il celebre «non possumus» di Pio IX diventa una gabbia soprattutto per chi lo pronuncia, così come il rifiuto a convertirsi della famiglia Mortara segna la fine del rapporto col figlio e lo stesso fanatismo con cui Edgardo abbraccia la fede cristiana da adulto, diventando un fedelissimo del Papa e un missionario che cercherà di convertire anche i familiari, si trasforma, più che in una strana sindrome di Stoccolma, in una scelta ottusa percepita come una salvezza.

Mettiamola così, forzando un po’ le cose: è probabile che in Edgardo Mortara, che quel participio passato secco e senza appello del titolo (Rapito!) trasforma ancora di più in un prigioniero, Bellocchio veda un destino paradossale ma estremo. Come a dire che, se proprio nella vita si deve essere cristiani, tanto vale farlo in maniera assoluta e ottusa, azzerando ogni forma di raziocinio o anche solo di buon senso. Quello di Edgardo è uno scandalo, certo, ma non solo della Chiesa; lo è anche di Edgardo stesso, che abdica a sé stesso e si vota a una vita e una fede che non gli appartengono. Quando la madre lo vede per la prima volta dopo il rapimento, prigioniero del collegio dei Catecumeni in cui è stato condotto, come prima cosa la donna nota con disappunto il modo in cui è vestito, la divisa che è costretto a portare. Edgardo guarda continuamente il mondo attorno a sé, impotente e ignorante (come ad esempio quando da una barca sul fiume osserva stupefatto un rito cattolico sulle rive) e al tempo stesso è costantemente guardato dagli altri, come se la sua religione non fosse che un abito da indossare, un segno (e un sogno) esteriore. Edgardo, per Bellocchio, ha la lingua che il ridicolo mistico di Nel nome del padre al contrario si tagliava per votarsi a Dio, e quella lingua la usa per recitare preghiere mandate a memoria, per convertire, per leccare il pavimento e fare il segno della croce dove è passato Pio IX. Edgardo è egli stesso la parola incarnata, è il segno visivo, incarnato, del battesimo che Bellocchio cercava, e ovviamente è una figura alienata, strappato dal suo mondo e trasformato in un autentico religioso fasullo.

Rapito rappresenta per Bellocchio una probabile resa dei conti con sé stesso e la sua idea di religione, con la sua ricerca ed esigenza di risposte, il suo bisogno di attaccare per comprendere, di togliere sacralità al sacro per confrontarsi alla pari con un mistero che mistero non dovrebbe essere. Per questo è un film netto, esplicito, tagliato con l’accetta, immerso in uno stato febbrile che non cerca assoluzione o pietà – tutti i personaggi sono bloccati nella loro dimensione storica e compressi nel loro ruoli di figli, padri, madri, pontefici, inquisitori – e riporta tutto alla soggettività del regista stesso, stanco delle preghiere, dei crocefissi, degli abiti in controluce, dei sogni e degli incubi, eppure aggrappato a questi segni come alle uniche forme attraverso cui sa confrontarsi con l’invisibile.

È strano che Rapito sia stato presentato a Cannes e poi distribuito nello stesso periodo di Il sol dell’avvenire: entrambi sono film in cui i rispettivi autori ripensano ai rispettivi immaginario quasi con stanchezza, come atti dovuti e inevitabili. Se però Moretti, regista egocentrico ma dialettico, con il suo resoconto artistico ed esistenziale si rivolge contemporaneamente a sé stesso e al suo pubblico, Bellocchio, regista solipsistico ed egotico, si rivolge a sé stesso, contro le proprie convinzioni e debolezze, aprendo la vicenda di Edgardo Mortara alla riflessione sulla solitudine degli uomini, non di fronte al dubbio sull’esistenza di Dio, ma di fronte al fantasma della libertà e all’impossibilità, forse, di vivere senza la religione.