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Filtri - Asteroid City

Si parta con un dettaglio (d’altronde il cinema di Wes Anderson è fatto di dettagli, no?). Nel momento in cui Asteroid City si apre, la prima cosa che incrociano i nostri occhi è il logo di un canale televisivo: WXYZ TV -  Channel 8. Stop. Pausa. Fermiamoci qui. Sì, subito. Per ora perlomeno. Perché quello è un canale che esiste (WXYZ TV è una delle maggiori emittenti locali degli States, nata nel 1948 e dedicata prevalentemente all’informazione nella città di Detroit, Michigan), ma che non esiste, quantomeno non così (il canale effettivo è il 7, non l’8, il logo non è quello). Si tratta, dunque, per Anderson, sin  dalla primissima immagine del film, di rimandare a un che di esistente, esplicitamente tradendolo. Perché? Perché non chiamare quel canale televisivo con un nome appositamente inventato? Direi per una questione di filosofia e di gusto, ovvero per una (tragica) questione sentimentale. Il cinema di Wes Anderson è un catalogo di cose, di oggetti che gli piacciono. E che al contempo prendono posto, soffocano, sostituiscono, nascondono, trattengono i sentimenti che soggiacciono. Feticci, per l’appunto. La superficie in vece della profondità, l’oggetto al posto dell’emozione, il linguaggio in sostituzione del sentire. Il visuale a ricoprire l’abisso. 

Cosa gli piace, di questo logo, di questo canale esistente e non esistente, WXYZ TV? Facciamo delle ipotesi, verosimilmente prossime al vero: 1) il fatto che sia un calembour, un nome che gioca infantilmente ma elegantemente con l’ordine alfabetico, e dunque un esercizio ricombinatorio del mondo, che rispetta una regola, un dogma, una forma data, ma la reinventa sottilmente (giustapponendo alle ultime quattro lettere dell’alfabeto un’altra forma prestabilita, l’acronimo T V,  fatto di lettere che precedono immediatamente quelle del canale, come in un anagramma estremamente limitato); 2) il fatto che quelle lettere siano esattamente le ultime dell’alfabeto: perché Asteroid City, così come The French Dispatch, è un coloratissimo film funereo, terminale, che finisce con la morte dell’autore e con l’evacuazione della scena, un deserto che ritorna al deserto, polvere alla polvere; 3) il fatto che, in ultimo, in quest’anagramma delle ultime sette lettere, ne manchi una: la U. Che in inglese si legge come “you”. Cioè “Tu”. Dunque quello che non è “io”. E quindi è “l’altro”. La cui mancanza è esattamente uno dei crucci fondamentali dei personaggi tragicamente narcisisti, chiusi in se stessi, incapaci di dialogare col mondo, dell’arte di Wes Anderson (…)

«Asteroid City non esiste», ci dice il narratore di Asteroid City (Bryan Cranston). «È un dramma immaginario creato espressamente per questo canale televisivo. I personaggi sono finzionali, il testo ipotetico, gli eventi una fabbricazione apocrifa. Ma insieme rappresentano un resoconto autentico del funzionamento interno di una moderna produzione teatrale». Proviamo a mettere ordine. Asteroid City è un film che mette in scena una rappresentazione teatrale allestita da un’emittente televisiva, con un conduttore televisivo che prima introduce le due figure autoriali dello spettacolo, il drammaturgo Conrad Earp (Edward Norton) e il regista Schubert Green (Adrien Brody), e poi lascia campo alla pièce, commentandola di tanto in tanto. Secondo Wes Anderson è un film sul teatro newyorchese degli anni 40 e 50, un momento di grande cambiamento in cui i palcoscenici della Grande Mela incontrano Hollywood, e così il cinema il teatro, attraverso nomi come Elia Kazan, Marlon Brando, Montgomery Cliff, Paul Newman ed esperienze come quella dell’Actors Studio, da cui passano Marilyn Monroe e, la cita lo stesso Anderson in un’intervista ai “Cahiers du cinéma”, Kim Stanley (interprete, per John Cromwell, di The Goddess, 1958, sorta di ipotesi biografica di un’attrice depressa, ovvero la stessa Marilyn). È un film in costume, come lo erano The Grand Budapest Hotel (Mitteleuropa anni 20/30), Moonrise Kingdom (New England 1965), The French Dispatch (Francia anni  60). O, probabilmente, come lo sono tutti i suoi film, anche quelli al presente. Una questione di filtro. 

Il punto è che questo film sul teatro non può essere veramente un film sul teatro. Primo perché come set sceglie di ricreare il luogo meno teatrale possibile: il deserto, terzo per inadattabilità al palco (per quanto lo si possa ridurre ai minimi termini) dopo lo spazio (comunque al centro del film…) e l’oceano. Secondo perché mette in scena un numero elevatissimo di personaggi (oltre 150). Terzo perché fa muovere di frequente le loro linee narrative contemporaneamente, chiedendo alla macchina da presa di spostarsi di continuo secondo l’asse orizzontale, tramite carrelli e panoramiche che, ossessivamente, automaticamente, ricompongono a ogni movimento il gusto della simmetria del loro autore. Quarto perché, se è vero che c’è un momento in cui si rompe la quarta parete, è altrettanto vero che questo spettacolo chiede di guardare il cielo, in attesa o alla ricerca di un oggetto non identificato, e questa dimensione è preclusa a ogni spettatore teatrale immaginabile. Quinto perché, nonostante la suddivisione in atti e scene, non è chiaro nemmeno al suo protagonista il fine di tutto. La storia è riassumibile in due differenti modi: o in poche righe, guardandola da lontano, o in moltissime, soffermandosi su ogni parentesi aperta, strada indicata, dettaglio significante. Scegliamo la prima, naturalmente: Stati Uniti, 1955. Un fotografo da poco vedovo (Jason Schwartzman) si ferma con la famiglia (tre figlie piccole e un figlio) ad Asteroid City, cittadina di 87 abitanti nel deserto, dove è in corso un frequentato convegno di astronomia con un concorso per dilettanti di genio (tra cui il figlio maggiore, un vero e proprio brainiac). Qui incontra una diva del cinema depressa (Scarlett Johansson, summa di Marilyn, Jane Russell, and so on) con la figlioletta (geniale a sua volta naturalmente): a lui e al figlio le due donne non sono certo indifferenti. La comparsa improvvisa di un alieno - con relativa fuga di informazioni tramite giornalino della scuola à la Rushmore - spinge il governo a mettere in quarantena (sì, certo, in quarantena: è un covid film) il paesello pieno di turisti. In questo tempo sospeso (ma quanto è realmente più sospeso di quello che c’era prima?) i personaggi fanno i conti con se stessi, cercando modo di confrontarsi con l’Altro (no, non solo l’alieno). A fare da sfondo ci sono nientepopodimenoche i funghi nucleari.