CINEFORUM / 499

Echi da un finale

 

Nella loro reciproca, fertile diversità, i tre film cui sono dedicati gli speciali di apertura di questo numero di «Cineforum» sono accomunati da un tema preciso: la morte. Non astrattamente, ma concretamente intesa come occasione per instaurare e dichiarare un modo di rapportarsi al mondo dei vivi. È stato detto che la morte è l’evento da cui la vita acquista infine il proprio senso. Ciò avviene non soltanto in relazione alla vita di chi muore ma anche di chi resta (per un po’) ancora in questo mondo. Come avviene per tutti i segni che stabiliscono un confine, anche per l’atto di morire vale l’ambivalenza che lo fa portatore di separazione e di contiguità, contemporaneamente. Così è stato anche con la morte di Mario Monicelli. Certo, il problema decisivo sta nella possibilità, per coloro che raccolgono l’eredità a volte importante di quel senso, di ridefinirla e adattarsela e manipolarla come meglio gli riesce o gli conviene. Si tratta di un rapporto asimmetrico, come si usa dire: una forma molto particolare di “dialogo” nel quale chi muore non ha più voce per esprimere eventualmente la propria posizione. Dopo un paio di giorni nei quali si sono rincorsi omaggi più o meno di rito, più o meno sonnacchiosi, di fronte all’unica considerazione capace di sfuggire alla trappola della retorica – semplicemente un’esortazione al rispetto – in Parlamento si è fatta gazzarra. Tanto per cambiare. In quel Parlamento dove una maggioranza ligia al “dovere” ha ratificato la volontà di dichiarare sostanzialmente lo Stato non responsabile delle sorti della cultura con cui si costruisce (si dovrebbe) quotidianamente la materia (intellettuale) di cui sono fatti i suoi cittadini. Questo Monicelli lo sapeva e si era espresso in proposito con termini che non lasciavano adito a fraintendimenti. Non è una novità: è già stato ricordato da molti. Da troppi, forse. Che siano state quelle affermazioni a fare lievitare l’irritazione sfociata nel rifiuto del rispetto che pure era appena stato richiesto da voce tanto autorevole? Rifiuto, in ogni caso, da addebitare a chiunque abbia voluto nell’occasione appropriarsi di un’eredità così sfuggente qual era il senso di una decisione così radicale, attraverso giudizi tanto definitivi e irritanti quanto irresistibilmente comici. Un momento cinematograficamente monicelliano, dopotutto. Le sue dichiarazioni sullo stato delle cose italiane che negli ultimi anni si sono succedute in interviste e occasioni di incontro interne ad alcuni programmi televisivi davano sempre la sensazione di giocare sullo scarto incolmabile tra lo scoramento e una innominabile speranza. Scarto tanto più prezioso quando a coglierlo come opportunità di modulare funambolicamente, tra sarcasmo e passione, il proprio pensiero è un artista lontano da ogni ridicola tentazione di porsi come maître à penser. D’altra parte come non riconoscere che il concetto di disperazione (civile) non solo non entra in contraddizione con il desiderio di riscatto, ma anzi lo sollecita come antitesi etica irrinunciabile, anzi intellettualmente indispensabile? Se poi anche gli studenti del movimento universitario hanno voluto subito riferirsi all’affermazione “rivoluzionaria” – raccolta immediatamente dai brandelli di memorie mediatiche messi in circolazione a corollario dell’evento – almeno lo hanno fatto con un’ironica familiarità che li ha assolti da ogni intenzione sciacallesca. E d’altra parte c’è qualcosa di sospetto in chi non è rivoluzionario a vent’anni. Come in chi, dopo esserlo stato, vorrebbe che i ventenni delle generazioni successive fossero sempre e soltanto “ragionevoli”.