CINEFORUM / 516

Take Shelter

 

di Matteo Marelli

Looka younder!

(Nick Cave, Tupelo)

A problematizzare ancora di più la cosa è che Curtis è il solo a sentirsi sospeso sull’abisso di una apocalisse imminente. Anima in pena oltre ogni pena, annaspa nella certezza che la redenzione non sarà mai alla sua portata, stoico e patetico, perso per sempre nei meandri della sua lucidissima follia, con il cuore che sanguina un misto di dolore e di odio. Animale in balia delle aggressioni che gravitano intorno al suo corpo, Curtis subisce la solitudine di una diversa consapevolezza, per lui stesso indecifrabile. Teme l’avanzare di un’ossessione paranoide che possa prendere il sopravvento su tutto, che le sue paure non siano presagi ma piuttosto legate a un’incipiente schizofrenia, tara materna di cui paventa l’ereditarietà. Ma quando l’intera comunità comincia a dubitare della sua sanità mentale, dopo aver assistito, incredula, all’esasperarsi delle sue maniacali ossessioni culminanti nella costruzione di un rifugio antiuragano e al suo progressivo isolamento, eccolo scatenarsi isterico e furibondo nella sua profetica arringa. Un predicatore invasato recitante un funereo sermone di disperata desolazione, allegoria gotica e misticismo epico si alternano in un crescendo di angosciate visioni tempestose e lamenti sconsolati. Ma il dubbio rimane: Curtis vede il mondo meglio e con disincantata profondità o è preda di una depressione maniacale?
Take Shelter è costruito attraverso il meccanismo stilistico della soggettiva libera indiretta, operazione consistente nell’«adozione, da parte dell’autore, non solo della psicologia del suo personaggio, ma anche della sua lingua» (1). Come l’ha definita Costa, la soggettiva libera indiretta è la materializzazione di un certo modo di intendere la realtà di un personaggio in tutte le inquadrature, anche quelle chiamate oggettive. Così, se il personaggio è un nevrotico, come nel caso di Curtis, che distorce nevroticamente la sua realtà, l’autore deve trasferire questa nevrosi nelle immagini, non solo in quelle soggettive, ma in tutte le inquadrature, il montaggio, la luce, la scenografia, la fotografia eccetera. In questo modo Nichols impedisce ogni compiuta elaborazione razionale del contenuto visivo da parte dello spettatore, trascinato in un continuo rincorrersi fra i poli soggettivo e oggettivo della percezione. Per mezzo della soggettiva libera indiretta il regista non si limita banalmente a restituirci la visione del personaggio e del suo mondo, attraverso questa ci fornisce più profondamente un’altra visione, in cui la visione di Curtis si trasforma e si riflette: una visione che supera l’oggettivo e il soggettivo, e si fa, per così dire, autonoma. A tal riguardo torna a memoria Deleuze, che definisce il film come un percetto, una percezione al quadrato, percezione di una percezione.
Abbiamo un soggetto e un oggetto inclusi nello stesso sguardo che parrebbe provenire dal primo, ma che in realtà non gli appartiene. Un soggetto e un oggetto entrambi in scena, parti di un mondo unico, che ruota attorno a loro e in parte li sommerge. In Take Shelter le soluzioni visive sono “paradossali”, destabilizzano la visione e fanno sì che il paesaggio pare osservare il personaggio, e il personaggio pare venir assorbito dal paesaggio stesso (2). La macchina da presa accompagna Curtis nei suoi spostamenti, agisce con lui e vede come lui nello stesso tempo. Viene a crearsi quella che Mitry definisce immagine totale, ovvero al tempo stesso descrittiva (per ciò che mostra), analitica (in quanto si identifica con lo sguardo del personaggio) e simbolica (per le strutture compositive che ne derivano).
In riferimento a questo Bernardi ha parlato di autonomia dell’immagine, di sopravvento del visibile sul visto, di relativa autonomia del visivo rispetto al racconto per descrivere questa peculiare retorica cinematografica che fa dell’opera un enigma. Jeff Nichols dipana magnificamente un film tutto giocato sull’ambiguità e l’angoscia, costringe lo spettatore a una condizione di dubbio. Non vuole che pensi programmaticamente in questo modo o in quest’altro. Vuole solo che non sia sicuro di niente. È questa la cosa più importante: l’incertezza. Take Shelter appare come una sorta di “sospensione” di giudizio sulla realtà, è un’opera aperta, ambivalente, dai piani ribaltati, che affida alla coscienza critica dello spettatore la scelta della soluzione finale.

 

<p style="\&quot;text-align:" justify;\"="">

(1) Pier Paolo Pasolini, Empirismo eretico, Garzanti, Milano 2003 (prima edizione 1972), pag. 176. (2) Cfr. Sandro Bernardi, Il paesaggio nel cinema italiano, Marsilio, Venezia 2002, pag. 65 e seguenti, pagg. 159-165.