CINEFORUM / 529

Monadi in viaggio

Monadi in viaggio

di Adriano Piccardi

 

C’è un elemento che ricorre nei film di cui si scrive nella prima parte di questo numero di «Cineforum». È quello del luogo chiuso, più o meno angusto (realisticamente, metaforicamente), in cui i protagonisti o comunque i personaggi si trovano al contempo rinchiusi (non necessariamente protetti – in una condizione di sicurezza precaria, piuttosto) ed esposti a una dimensione esterna che li incalza senza sosta: in modi diversi, implacabile. Sia che si tratti di un esterno fisico, fatto di luoghi urbani suburbani circumterrestri, sia che si identifichi con un presente/passato (personale collettivo generazionale) irrisolto, dolente, fonte di falsi movimenti o, talvolta, di illusioni di rinascita, di “seconde occasioni” da non lasciarsi sfuggire. Las acacias, Via Castellana Bandiera, Gravity: abitacoli, di camion, automobili, moduli spaziali. La dimensione del viaggio (strada vita, senza soluzione di continuità) e quella dell’immobilità più grottesca, ma anche del ritorno da un vuoto “sovrumano” alla pienezza, di un altrettanto inquietante “a misura d’uomo”. Luoghi in cui prendono corpo tanto ricordi e incubi quanto fantasmi di relazioni/conflitti con se stessi prima che con gli altri, espressioni di un male di vivere originato da un trauma famigliare o da un retaggio culturale collettivo esaltato dalla paralisi in cui questo presente ci costringe. Nelle premesse urbanistiche di Sacro GRA – la circolarità reiterata e costitutiva del Grande Raccordo Anulare – sta invece la condizione generatrice di ogni singola storia che lo abita e del film stesso: paradossale e disincantata raffigurazione di un alienante/rassicurante hortus conclusus, la cui messa in scena richiede, in parti eguali, compassione e rassegnazione. Altro anello, Bling Ring: i luoghi chiusi si moltiplicano, sono le stanze dei giovani espropriatori ma anche quelle delle star che essi vanno nottetempo a depredare o i locali in cui si esibiscono con il frutto delle loro razzie e dove prendono ispirazione dalle future nuove “vittime”; e però anche qui occorre allargare l’idea di chiusura a una cultura – questa volta non arcaica, ma prepotentemente contemporanea – che finisce per ingabbiare tutti: ladri, famiglie, star espropriate, rappresentanti dei media e media medesimi. Divorandoli. Lo sconosciuto del lago offre la variante claustrofobica del plein air, modulata dai trapassi della luce atmosferica che si riflette giorno dopo giorno sulla superficie del lago, sulle colline che lo circondano, nei verdi cangianti del bosco che vi si affaccia. Come una riquadratura, l’insieme delle componenti che definiscono concretamente la scena del dramma focalizza il territorio conchiuso del desiderio e della sua gratificazione quale luogo interiore e “definitivo”, nel quale prende senso anche ciò che dall’esterno può apparire espressione assoluta e avvilente dell’insensatezza. InThe Grandmaster la modalità figurata della reclusione si fa totalizzante. I protagonisti vivono un’esistenza votata l’uno, alla correttezza e all’onestà dei comportamenti integerrimi che la sua posizione di marito e di Maestro delle arti marziali richiede; l’altra, a uno dei sentimenti più esigenti e ossessivi, la vendetta. Ed entrambi, in conseguenza di queste scelte esclusive si trovano a condividere la condizione della solitudine e della rinuncia all’amore, sublimato infine in una malinconica ammissione di nostalgia e di dedizione mancata. Qui è la vita stessa, con le sue implacabili richieste e la sua determinante irrevocabilità a collocare i due elementi della coppia nella posizione di lontananza/vicinanza più radicale e significativa. Il film di Wong Kar-wai retroillumina tutti quelli richiamati più sopra: il significato dei gesti, degli spostamenti, dei viaggi più estremi e dei ritorni più improbabili sta infine soltanto nello status che ci accomuna, che paradossalmente ci avvicina, quello della solitudine.