CINEFORUM / 546

Racconti sospesi tra fiaba e realtà

È indubbiamente un film spiazzante, Il racconto dei racconti. Per diverse ragioni. Per il fatto di cimentarsi con un genere che in Italia è sempre stato negletto, quasi per nulla praticato dai cineasti e spesso snobbato dai critici. Per il fatto di trovare ispirazione in una raccolta di racconti che – malgrado abbia suscitato l’ammirazione dei fratelli Grimm e, in anni più vicini a noi, abbia ispirato, oltre a un film dimenticato (ma oggi meritevole di un recupero) come C’era una volta (1967) di Rosi, un’opera abbastanza nota come La gatta cenerentola di Roberto De Simone – rimane un testo sconosciuto, un semplice titolo che ci si ricorda di aver intravisto tra i capitoli dell’antologia di letteratura delle superiori. Per il fatto che, contrariamente alle aspettative nei confronti delle fiabe, è difficile rintracciare all’interno del film una logica edificante chiara e univoca. Per il fatto, infine, di abbandonare i riferimenti alla realtà (e di denuncia) che – nella percezione non solo di una buona fetta del pubblico, ma anche di parte della critica – avevano identificato l’opera di Matteo Garrone dopo Gomorra (2008) e Reality (2012). Di fronte a queste mosse spiazzanti, una risposta frequente da parte dei commentatori è stata quella di considerarlo un passo falso all’interno della filmografia di questo autore, un’opera poco riuscita, di cui ammirare tutt’al più la bellezza figurativa, innegabile (la lotta sottomarina col drago, l’uso mai banale delle locations, certi pittorici tableaux vivants) ma giudicata superficiale e non realmente emozionante. L’altra risposta frequente è consistita nel cercare, tra le pieghe dei racconti, legami puntuali con la realtà d’oggi (la chirurgia estetica, la volontà di avere figli a tutti i costi), vedendo nel film – come ha scritto qualche critico – una “metafora del presente” o magari ritrovarvi una qualche “morale” (il trionfo del femminile è una chiave di lettura che più di un giornalista ha indicato). Si direbbe che entrambe le risposte (la prima legata a una valutazione negativa del film, la seconda a una valutazione positiva) sono un modo di trattare il disagio che procura il fiabesco – il fiabesco, intendo, che non si presenti nelle vesti dello spettacolo hollywoodiano. «Istrumento attissimo a condurre la nazione all’avvilimento e alla stupidità… concime… del despotismo e della superstizione», scriveva Ferdinando Galiani delle pagine del Basile. «Non vuole istruirci e men che mai migliorarci»: Ruggero Guarini riassume così la ragione del rifiuto degli illuministi di fronte al Cunto. E, sebbene non più in termini così drastici, l’atteggiamento nei confronti di questa materia – draghi, orchi, magie – continua a essere, per molti versi, simile anche oggi. Per questo, di fronte a un regista che abbandona la realtà odierna per tuffarsi fra personaggi di questa natura, la risposta consiste nel considerare il film come una momentanea e poco comprensibile deviazione oppure come un travestimento (assunto magari per attrarre il pubblico del Trono di spade…) di un discorso in cui restino leggibili immediati riferimenti alla realtà, se non all’attualità. In modi diversi, entrambe le risposte depotenziano la volontà di misurarsi direttamente con il linguaggio e i caratteri delle fiabe, ossia di affrontare – per usare le parole di Roberto Calasso, a proposito di questo genere di racconti (1) – «il terrore del mondo, il terrore di fronte alla sua muta, ingannevole, sopraffacente enigmaticità. Terrore di fronte a questo luogo della metamorfosi perenne, dell’epifania, che include innanzitutto la nostra mente, dove assistiamo senza tregua alla ridda dei simulacri». Se c’è un filo conduttore nel cinema di Garrone – almeno a partire da L’imbalsamatore (2002) – è invece proprio la volontà di addentrarsi in questa parte oscura di noi. È certamente riduttivo vedere Gomorra come un film “di denuncia” sulla camorra e del tutto fuorviante vedere in Reality un film “sul” Grande fratello. Gli agganci con la realtà vengono sempre trasfigurati in una dimensione altra, nella quale sono spesso presenti elementi fiabeschi. L’inizio di Reality, con la lunga entrata della carrozza, i personaggi in costume e il suono del glockenspiel, è da questo punto di vista eloquente e ci introduce in una dimensione fiabesca che non si dissolve nel seguito del film. Ancor di più, alcuni elementi di L’imbalsamatore e di Primo amore (2004) sembrano anticipare situazioni che – oggi, col senno di poi – si potrebbero dire uscite dalla raccolta di Basile. Il protagonista di Primo amore non assomiglia ai tanti orchi di Basile e, ancor di più, il villino dove si rinchiude, separandosi dal resto del mondo, con la donna non è come l’antro nel quale l’orco segrega la fanciulla diventando – amandola – padrone della sua vita? E il personaggio che dà il titolo a L’imbalsamatore non è come una specie di piccolo folletto malefico, un diavoletto che si introduce nella vita del giovane protagonista? Liberarsi dalla sua seducente ma nefasta influenza è la “prova” che quest’ultimo deve superare per poter trovare il vero amore: la scena in cui il ragazzo si libera dell’“amico” è ricalcata su quella in cui lo stesso ragazzo veniva abbandonato dalla fidanzata – come in una fiaba, solo le prove sostenute lungo il viaggio, reale e metaforico, avvenuto tra una scena e l’altra gli consentono di raggiungere la maturità. Come nelle fiabe, nei film di Garrone sono spesso presenti corpi fuori dal comune e ne sono osservate le trasformazioni. Così come il tempo ha la scansione non lineare e non uniforme delle fiabe (2). Può bastare una giornata a una donna per sviluppare una gravidanza (Il racconto dei racconti) e i personaggi possono vivere sfasati tra passato e futuro, come accade in Primo amore, specialmente nella scena che si svolge sulla barca, quando i due protagonisti appaiono in un’inquadratura sfocata appunto perché – come spiega lui – stanno vivendo in dimensioni temporali diverse. Se i film precedenti avevano in sé germi di racconti fiabeschi, in quest’ultimo lavoro non è difficile trovare – senza bisogno di ricercarvi puntuali legami con la realtà attuale – i temi centrali dell’opera di Garrone. Come in altri suoi film, anche in Il racconto dei racconti, Garrone esplora il desiderio e i limiti che la natura, il caso o le condizioni sociali pongono ai desideri. A questo motivo si lega quello del potere, che qui – come in altri film (Primo amore e Reality, in particolare) – è associato al vedere, all’offrirsi o al sottrarsi alla vista degli altri. I protagonisti dei tre episodi (nei quali sono condensati echi e rimandi anche ad altri racconti di Basile) sono sospesi (la parola è scelta, ovviamente, in riferimento all’immagine conclusiva dell’equilibrista sulla corda) tra l’accettazione dei vincoli posti dalla natura o dalla distribuzione del potere esistente (in particolare, i ruoli e le gerarchie all’interno della famiglia) e la ribellione, tra la rottura degli equilibri sociali e naturali e la rassegnata sottomissione a essi. A sua volta, la condizione dell’artista (i saltimbanchi) è anch’essa sospesa – tra il rivelare la realtà com’è e l’intrattenimento – e quindi precaria e incerta. Non trasposizione scolastica, né utilizzo pretestuoso finalizzato a uno spettacolone internazionale (3), Il racconto dei racconti è certamente un film sorprendente, che unisce ricercatezza visiva e – malgrado certe studiate sospensioni, che possono lasciare deluso lo spettatore “medio” – narrazione avvincente: se non tutto, nella sua costruzione, convince appieno, ciò deriva dal fatto di aver percorso – come si diceva in apertura – strade molto poco battute e quindi rischiose.

 

 

(1) Sia la citazione di Galiani che quella di Calasso sono tratte dalla Postfazione di Ruggero Guarini all’edizione Adelphi (Milano 1994) di Il racconto dei racconti. (2) Sul tempo nella raccolta di Basile si veda Michele Rak, Il racconto fiabesco, in Lo cunto de li cunti, Garzanti, Milano 1998, pagg. XXXII-LXXI, in particolare le pagg. XLVIII e segg.: «All’interno del racconto il tempo poteva venire ampliato o ridotto senza limiti». (3) Oltre ad aver abbandonato completamente il napoletano, Garrone si prende molte libertà nel modellare e nell’assemblare i racconti, ma si dimostra anche fedele nel sottolineare e sviluppare alcuni dei temi centrali della raccolta di Basile, come ad esempio il riso (cfr. Rak, cit., pagg. XXXIV-XXXV) o il rapporto tra famiglia e dominio (cfr. Rak, cit., pagg. LIV-LVI).