CINEFORUM / 547

Un’adolescente in fuga

Diamante nero (Bande de filles, 2014) comincia con la sequenza di una partita di football americano, dove vediamo in controplongée i giocatori che indossano caschi di protezione, ginocchiere e imbottiture d’ordinanza. Sembra di essere in una palestra statunitense e invece siamo in una banlieue parigina e i giocatori non sono uomini bensì ragazze di colore. Poi, dopo la partita, le ragazze si ritrovano insieme per le strade deserte della periferia, negli spazi geometrici e squallidi invasi dai grattacieli e nel buio notturno traforato dalle luci delle finestre e degli androni. Via via il gruppo si dirada mentre ognuna si dirige verso la propria casa. Dall’oscurità arrivano le voci dei ragazzi, che s’intravedono acquattati intorno: cercano di attirarle chiamandole per nome ma provocano l’apprensione circospetta delle ultime due rimaste, mentre si instaura una tensione accentuata dal silenzio e dal buio intorno alle cinture di cemento di quei quartieri. Fortunatamente non accade nulla e la tensione si allenta quando l’ultima ragazza rimasta, Marieme, dopo essersi brevemente intrattenuta con un giovane che sta aspettando qualcuno, può finalmente raggiungere la porta di casa. Alla convulsione fisica, alla spettacolarità delle prime immagini, calate nell’atmosfera “esotica” di una palestra, con una musica electropop, segue quindi il clima inquieto di quella successiva, dove Céline Sciamma suggerisce la condizione delle ragazze che devono convivere quotidianamente con le prepotenze maschili. Anche se quella sera non accade nulla, è percepibile il nervosismo delle ragazze e la loro solitudine. Solitudine che si prolunga angosciosamente nell’ambito domestico, dove Marieme ritrova, oltre all’affetto delle sorelle più piccole, anche la brutale autorità del fratello, che accompagna gli ordini con le mani. In realtà, Bande de filles, diviso in cinque capitoli, non è un film sociologico e, nonostante le apparenze, gli sta stretta anche l’etichetta di “film-banlieue” perché di quel mondo viene offerto un quadro deliberatamente parziale: non appare un solo poliziotto, pochi bianchi e pochissimi adulti mentre i maschi sono visti esclusivamente dallo sguardo delle ragazze e non esistono come personaggi autonomi. È un film sull’adolescenza come dimensione di metamorfosi interiore e fisica, di fermenti contraddittori e instabili, sulla stessa linea di ispirazione dei due precedenti film di Céline Sciamma, Naissance des pieuvres (2007) e Tomboy (2011), che è stato distribuito anche in Italia. Si inserisce quindi nella continuità ininterrotta di quella variegata filmografia che il cinema francese ha dedicato all’età “difficile” (si pensi solo ai recenti La vita di Adéle di Kechiche – che in La schivata aveva già raccontato una storia adolescenziale nella banlieue – e Giovane & bella di Ozon). L’interesse della Sciamma per l’adolescenza, del resto, lo ritroviamo anche nelle sue collaborazioni con altri cineasti (ha partecipato alla stesura della serie Les Revenants, che, in chiave fantastica, era incentrata anche su personaggi di ragazzi e ha recentemente concluso la sceneggiatura del film di André Téchiné, Quand on a 17 ans, che uscirà nel 2016). Ma ha anche dichiarato di avere concluso un ciclo proprio con Bande de filles.

Il linguaggio dei capelli

Classe 1980, anche lei originaria della periferia (Cergy Pontoise) ma appartenente alla classe media (e bianca), la Sciamma si inserisce nella filiazione del cinema di Pialat, dove sono la corporalità, l’istintività, la pulsionalità a essere privilegiate per descrivere la natura di un personaggio e raccontarne la storia. Bande de filles è soprattutto un romanzo di formazione alla vita che racconta quattro tappe nella crescita di una sedicenne – Marieme, appunto (impersonata da un’autentica rivelazione, la splendida Karidja Touré): l’iniziale circuito chiuso fra scuola e famiglia, poi l’adesione alla piccola banda formata da tre coetanee, Fily, Adiatou e Lady, poi l’affiliazione alla gang di Abou, uno spacciatore di quartiere, quindi la solitudine, nell’incertezza assoluta del futuro. Con Fily, Adiatou e Lady, Marieme condivide il gusto trasgressivo e liberatorio di esperienze errabonde (dove sfogare la rabbia repressa), scandite da piccole vessazioni (alle ragazze bianche), piccoli furti, parentesi ludiche (come affittare una camera d’hotel e lì giocare, ridere e cantare) ma anche da risse e lotte violente con altre coetanee nere. Marieme è oppressa dalle violenze del fratello, dall’assenza dei genitori (del padre non si sa nulla, la madre lavora tutto il giorno come donna delle pulizie e vorrebbe che anche lei facesse quel lavoro), dall’indifferenza della scuola (che la respinge per la seconda volta) e cerca se stessa in un rifiuto che investe tutti i fronti e si esprime nell’emulazione comportamentale come nella trasformazione del proprio aspetto. Per esempio, il linguaggio dei suoi capelli parla per lei, rendendo visibili i suoi tentativi di crearsi un’identità che non trova: passa dalle treccine “afro” alla “stiratura” su imitazione delle compagne, che cercano di emulare le capigliature delle cantanti nere statunitensi. (in questa fase muta anche il nome, scegliendo lo pseudonimo di Vic, come “Victory” ma forse anche come la protagonista del Tempo delle mele). Trova una quasi immediata sintonia con le altre nelle gioiose e selvagge escursioni a Parigi e sulla Défense, dove la Sciamma le segue in travelling e lunghi piani sequenza che evitano la frammentazione (abusata da tanto cinema contemporaneo) ed esprimono schiettamente una fascinazione che diviene poetica per la bellezza dei loro volti, dei corpi, della loro pelle e il fascino dirompente di un’energia ancora acerba e sognatrice – si pensi alla sequenza, di immediata seduzione plastica e sonora, dove nella camera d’hotel si esibiscono in un karaoke privato mimando la canzone Diamonds di Rihanna. Ma la Sciamma non ne edulcora le contraddizioni e le debolezze: infatti la forza della loro leader, la bellissima Sophie alias Lady (Assa Sylla), è solo apparente, come dimostra la sequenza in cui viene sconfitta e umiliata da una rivale (alla sua sconfitta nella lotta seguirà non a caso il taglio dei capelli, segno di perdita di aura e carisma) e un’analoga vulnerabilità affiora in Adiatou (Lindsay Karamoh), che scoppia a piangere per futili motivi mentre le ragazze stanno giocando a minigolf. Nella terza fase, quando, perduta la verginità con Ismaël, fugge di casa dopo essere stata pestata dal fratello e abbandona anche la banda, Marieme si taglia i capelli in modo quasi punitivo e ritorna alle scriminature africane. Non solo ma la ragazza (quasi come la protagonista di Tomboy) mortifica i suoi connotati di femminilità, tagliandosi i capelli corti e fasciandosi e dissimulandosi i seni. Messasi al servizio di Abou, nasconde provvisoriamente la sua nuova identità semimascolina sotto l’appariscente parrucca bionda con cui entra nelle case lussuose dei bianchi a cui vende la droga. Anche gli abiti indossati da Marieme e dalle ragazze corrispondono nel film a segni precisi: la ragazza passa dalle tute delle prime sequenze, alla giacca di pelle della gang, poi a un abito rosso quando si arruola nella banda dello spacciatore (è la stessa Sciamma ad avere ideato i costumi del film). Ogni mutamento non approda ad altro se non alla speranza innescata da una nuova metamorfosi, che finisce nella disillusione (abbandona anche la gang di Abou quando questi vuole imporle le sue effusioni sessuali durante una festa). Nelle ultime sequenze la vediamo ritornare davanti alla porta delle amiche ma rinuncia a entrarvi per poi uscire rabbiosamente dall’inquadratura in una ribellione che rimane sospesa e incompiuta. Sciamma evita fin dalle prime sequenze i facili cliché tragici e mostra il dramma di Marieme e delle sue coetanee espresso da movimenti che si agitano nel vuoto, nell’assenza di prospettive cui sembrano destinate. Di grande interesse è la scelta, come si diceva, di restringere la visuale del racconto all’angolazione della protagonista, quindi di assumerne la medesima parzialità. Questo dispositivo agisce brillantemente fin dall’inizio, quando dalla sequenza della partita traspare il ricordo della serie televisiva Friday Nights Lights, imperniata su una squadra di giocatrici di football del Texas. Molto bella, in questo senso, è anche l’unica sequenza erotica del film, dove Marieme riesce a entrare nell’appartamento dove vive Ismaël, che stava dormendo, ed è lei a prendere l’iniziativa inducendolo a spogliarsi, a girarsi sulla pancia e a farsi accarezzare il sedere. Bande de filles è un film dove assumono un notevole rilievo evocativo anche gli spazi diurni e notturni, filmati in Cinemascope e con soluzioni diverse (gli esterni sono stati girati a Seine-Saint-Denis, tra Bobigny e Bagnolet, mentre gli interni sono stati realizzati tutti in studio). È significativa, in particolare, la dimensione claustrofobica e coatta dei labirinti di scale, androni, basamenti, palazzi dove le ragazze vivono come in un acquario, sempre sotto lo sguardo dei maschi che le sorvegliano e giudicano dalla sommità delle scale. Quegli spazi di passaggio erano stati concepiti dalla società per collegare le aree dei grattacieli l’una all’altra ma sono diventati – come il film suggerisce – itinerari esposti al pericolo e che chiudono, anche fisicamente, la gioventù in una precarietà che la minaccia da ogni parte.