CINEFORUM / 548

Tra disincanto e vitalità

Claudio Caligari, come noto, è mancato durante la realizzazione del suo terzo lungometraggio, e il montaggio che possiamo vedere di Non essere cattivo è il primo e il solo voluto dal regista, portato a termine anche grazie gli sforzi dell’amico-attore Claudio Santamaria, interprete del secondo lungometraggio del regista, che si mise in marcia per mobilitare il mondo della produzione e trovare i fondi necessari affinché il regista amico potesse ricevere quanto necessario per completare il suo film. Non essere cattivo è stato poi presentato a Venezia, e alla luce dei riflettori si è affermata un’opera vitalissima che, in una certa misura, salda un inaspettato bilancio con la lezione pasoliniana e con le esperienze cinematografiche e di vita di un regista, Caligari, attento al suo mondo e a una generazione di vittime del disagio sociale. Come troppo spesso succede, ci si accorge del valore di un percorso quando il suo artefice non è più tra noi. Resta allora la sua opera a parlarci di lui. Tre lungometraggi in poco più di trent’anni, dopo alcuni splendi e scomodi documentari sul mondo della tossicodipendenza, l’affermazione critica di Amore tossico, i quindici anni di attesa per poter realizzare L’odore della notte e le estreme difficoltà produttive per osare altri lavori, fino all’ultimo, estremo, Non essere cattivo, che arriva dopo diciassette anni di attesa ed è stato preceduto da un appello di Santamaria rivolto tramite lettera a Martin Scorsese, affinché Caligari potesse ricevere il meritato ascolto nel mondo della produzione. Il regista porta, in Non essere cattivo, l’esperienza documentaristica, il ricordo e la cifra dei lavori sull’eroina e il suo mondo, e i suoi lungometraggi, che alzano la scommessa estetica lungo livelli di partecipazione che avvicinano Caligari al più teso “cinema esistenziale”, raccolgono la ruvidità di un confronto estremo con il corpo e con il proprio tempo. In un contesto di violenza e mancanza di approdi, in Non essere cattivo sorprende innanzitutto il disincanto che si trasforma in vitalità, quella partecipazione sorvegliata e straniata alla vicenda di due “fratelli di strada” che, dopo una vita letteralmente divorata dalle droghe e dai piaceri, ambirebbero a sistemarsi, si affannano smaniosi a trovare una casa e un amore, un lavoro che ponga fine all’angoscia di tutte le loro dipendenze. Uno dei due amici sembra farcela, e allora aiuta l’altro, che conosce un vecchia fiamma del compagno di “vita spericolata” e si appoggia a lei. Ritratto crudo e partecipato di una scena sociale in cui i sogni sono chimere da afferrare e piegare alla volontà del momento, quello del regista di Arona è anche un ritratto sconcertante di quanto poco il cinema o la televisione ci mostrano, in termini di rappresentazione veritiera, degli sviluppi nella vita degli “ex ragazzi di strada”. Cosa succede quando le droghe sintetiche uccidono la volontà e il pensiero? Caligari riprende i “residui” della società, individui che non sono aiutati dai centri socioassistenziali perché nessuno ha la forza, le intenzioni o il denaro per venire loro incontro. Disegna una parabola orizzontale e cupa di vite eccezionali nella spietata ordinarietà del loro destino. Resta vicino ai suoi interpreti, li riprende frontalmente con le inquadrature ruvide e dirette di una rappresentazione mai “rapita” ma attenta e, a tratti, esortativa. Come se fossero malati di eterna dimenticanza, i consumatori di droghe sintetiche non possono prevedere che il futuro sarà condizionato da defaillances gravissime a livello cognitivo, che renderanno arduo il percorso della volontà. Nel film, Cesare e Vittorio si affannano e si azzuffano per difendere la loro vita. Caligari registra tutta la vitalità dei loro tentativi di rivalsa. Cesare ha una madre anziana che accudisce una nipotina malata la cui madre è malata di aids, e raggiunge momenti di vero patetismo per l’incapacità di sottrarsi veramente alla sua condizione precaria. Vittorio sembra invece quasi encomiabile nel trascorrere dalle allucinazioni di cocainomane alle attenzioni colme di tenerezze di padre. “Non essere cattivo” è quanto bisogna ogni tanto ricordarsi di fare in un contesto di violenza generalizzata. Questa indicazione etica fa da sfondo a una dimensione nella quale, in realtà, tutti sono coscienti di dover tirare fuori la scorza più ruvida, il colpo più duro di una boxe di strada. A tratti, la vicenda è prevedibile. Le immagini disegnano una dimensione plumbea, sottolineata dalle tinte al neon della fotografia di Maurizio Calvesi. Luca Marinelli, nella parte di Cesare, lascia affiorare una sottolineatura quasi comica ed è bravo nel suo candore a tratti animalesco e disarmante. I perdenti non rinunciano dunque all’ironia, a un umanissimo temperamento. In un universo di coatti, di omologazione suburbana, lo sguardo di Caligari è quello di un osservatore cosciente di essere un rarissimo indagatore di un’archeologia solitamente falsata, raccontata con abbondanza di stereotipi. E in questa unicità di sguardo, deve essersi sentito, e a ragione, una sorta di “coscienza marziana”. Un film disperato, il cui primo montaggio è stato anche l’ultimo e dunque un film affannato e sofferto, capace di offrire un qualche monito di speranza nel riconoscimento dell’importanza di uno sguardo; ne è già prova il fatto che il film, malgrado tutto, sia uscito e si stia ritagliando un suo spazio di attenzione. Senza dubbio un film che, nella descrizione del mondo di Ostia datato 1995, evidenzia uno snodo tra il presunto tramonto dello spaccio di eroina e il trionfo delle droghe sintetiche, per poi vedere riapparire l’eroina. Ostia è lo snodo dei traffici illeciti ed è espressione di un mutamento epocale: le borgate di Accattone non sono più il luogo di un’umanità sopravvissuta ai sogni borghesi, ma sono il luogo di una svolta, sociale e culturale, con cui le persone, nella loro condotta bituale, sentenziano la fine di qualunque reminiscenza etica. Cesare, che trova lavoro in un cantiere e si aggrappa al suo amore, non è il traditore della condotta pasoliniana del protagonista di Accattone, ma è una nuova vittima, che tenta di sopravvivere “afferrando il treno”, adattandosi a una velocità impazzita come richiedono i tempi nuovi, ben sapendo che quando una porta ti si chiude in faccia il tuo futuro è segnato. E anche se trova un lavoro, in realtà è emblema delle vittime di questi nuovi anni, con i polacchi che prendono il sopravvento nei cantieri e una nuova precarietà sociale. Mentre Vittorio, che non ce la fa, vive i suoi momenti di silenzio, sprazzi di desolazione umana dolorosa e profonda. Il silenzio è una delle cifre più significative del film di Caligari, che disegna altrimenti uno scenario coattante, abitato dalla lingua di Ostia, dagli idioletti che prendono sovente un tono imprevedibile e beffardo (è forse questo uno degli elementi che hanno frenato la comprensione del film da parte della stampa straniera all’ultima Mostra del cinema di Venezia). Il silenzio è nello sguardo dell’adulto che osserva la bambina come un fiore magico in un contesto di sopraffazione. Il silenzio è nell’attesa, angosciata, dei due amici Cesare e Vittorio che attendono i tossici sulla spiaggia. Il silenzio è nelle strade che, osservate attraverso campi lunghi, segnano le inquadrature disegnando momenti di continua sospensione. Nulla di più congeniale, per indicare il senso di una vita imbrigliata in un tempo bloccato, di queste strade solcanti, di questi totali semplici e abbacinanti. Altrove, Caligari adotta un registro più straniato, più orientato in senso “felliniano”. È il caso della soggettiva di Cesare dell’autobus che raccoglie memorie di circensi e di varia umanità. Caligari ipotizza che il suo film componga una trilogia ideale, il cui avvio sarebbe rappresentato da Accattone di Pasolini e la continuazione da Amore tossico (film sull’eroina nel 1983, ben prima di Trainspotting). In questa ammissione tanto evidente di una plausibile e sentita eredità culturale, Caligari nutre il suo film di una vitalità e di una schiettezza di raro puntiglio, grazie a immagini secce, a figure urticanti, a soluzioni espressive semplici che ribadiscono una scrittura trasparente priva di manierismi. È come se Caligari, aggredendo il suo spettatore, si portasse con i suoi personaggi molto vicino a lui, per poi farlo diventare complice e testimone di questa “storie di vita”, fino a domandargli comprensione e mostrargli il lato umano dietro tanta coattante frenesia. E l’elemento mélo affiora, nella sua disarmante naturalezza, nell’ammissione del fallimento di Vittorio, ma il melodramma non è compiaciuto ma anzi presto smussato, sbeffeggiato da una battutta, ricondotto al linguaggio ordinario. Antiretorico pur nell’utilizzo di situazioni e stilemi noti, Non essere cattivo trova la sua maggiore singolarità nell’essere, costitutivamente, un film “decentrato”. Anche Ostia, luogo per definizione al margine, è sovente tratteggiata nei suoi aspetti periferici meno conosciuti, nei luoghi, nei bar, nei piccoli angoli in cui non si è visti e non si è pensati. Lo sguardo dell’osservatore attento, del testimone che intende denunciare una realtà vera, è ancora quello di Droga, il documentario del 1976 in cui Caligari impressionava per l’audacia di un ritratto veritiero in cui i piccoli dettagli erano già, come in Non essere cattivo, espressione di uno sguardo implacabile su un mondo rarefatto. Nel suo ultimo lungometraggio questa attenzione si esprime anche in una visione che sceglie la microfisica degli spazi per definire un’estetica della verità. Giustamente è stato detto che il suo film disegna come dei haiku in una tavolozza espressiva di limpida e ossessiva spietatezza. Questi dettagli, còlti nell’aspetto di semplicità di una rappresentazione inattesa che guarda alla metà degli anni Novanta come a un’epoca fortemente anticipatrice dell’oggi, sono indizi di una rappresentazione tesa a ricercare il momento di svolta, il gesto di fuga, il gancio che collega i personaggi a un possibile futuro. Ma sono anche i segnali di una impossibilità di reale cambiamento. Gli abitanti della Ostia pasoliniana vivono il loro scacco, ma lo vivono anche i sopravvissuti agli anni novanta e alla rivalsa degli ideali borghesi. Tra osservazioni disarmanti, battute feroci, tocchi di lieve patetismo, le strade senza fine e senza futuro di Caligari ci riportano a una riflessione sul senso del messaggio pasoliniano, sulla sua attualizzazione e sul fallimento di sogni e di presunti ideali, tra i quali, ineffabilmente, anche l’etica del lavoro come intesa nei ruspanti, si fa per dire, anni novanta. Dietro la scorza ruvida e aggressiva, un film che fa riflettere e da valutare con molta attenzione.