CINEFORUM / 548

Un coro di fantasmi

«Di per sé spazio e tempo non consistono in nulla. […] Sono quindi sostanzialmente di origine psichica. […] Ma se spazio e tempo sono proprietà apparenti di corpi in movimento prodotte dalle necessità intellettive dell’osservatore, la loro relativizzazione ad opera di una condizione psichica non è più in ogni caso un che di prodigioso, ma rientra nell’ambito del possibile». (Carl Gustav Jung, La sincronicità) (1) I film di Bellocchio sono rebus audiovisivi. Estremamente articolati. Che rimandano spesso e volentieri a una suggestiva dimensione privata. Specialmente quelli realizzati nel suo “posto delle fragole”, Bobbio, in cui la massima concentrazione geografica e (auto)biografica riflette al contrario implicazioni a largo spettro, in chiave collettiva, storica e politica. «Il mondo è piccolissimo, altro che vasto. Bobbio è il mondo»: parola del vecchio conte Basta, il vampiro, l’ultimo, che ha una certa dimestichezza con l’interminabile e gravoso tempo trascorso, temperata da una profonda, intransigente diffidenza verso lo spazio esterno. Lo dice con cognizione di causa, come personaggio prigioniero di se stesso e in cerca d’autore (all’occorrenza Bellocchio), in sprezzo alla fiduciosa idea di «vasto mondo» di matrice anderseniana espressa dal fidato e sussiegoso servitore Angelo. Il conte di queste cose se ne intende, in quanto figura chiave di una comunità dell’entroterra piacentino che sopravvive orgogliosa e timorosa dei mutamenti, mentre chiusa in se stessa rimpiange un mondo perduto, che è un po’ quello dell’età feudale, ma anche l’epoca del dominio assoluto della Democrazia Cristiana, il cui simbolo, lo scudocrociato, coincide con lo stemma della stessa Bobbio. Quanto più l’autore bobbiese per eccellenza, Bellocchio, restringe l’obiettivo delle sue parabole, puntando sulla gratuità degli eventi e dell’apparente nonsense, tanto più ci si accorge che la posta in gioco è decisamente alta, indecifrabile, indicibile. I suoi film più dichiaratamente “piccoli”, come Bobbio, domestici, a gestione familiare, sono anche i più liberi, ambiziosi, sganciati dalle regole della domanda e dell’offerta. Ma non da quel principio di realtà semmai impressionante, ambizioso, impertinente. Sangue del mio sangue rientra di diritto in questa insospettabile categoria progettuale, potenziandola, fino a spingerla alle estreme conseguenze significative. In altre parole, nonostante il budget molto ridotto, l’ultimo piccolo capolavoro bellocchiano è un home movie anomalo, persino troppo costoso, impegnativo, irridente per passare inosservato. O essere trascurato e magari dato in pasto al solo pubblico d’élite. Funziona, in un certo senso, come un dispositivo metanarrativo in cui un valore centrale lo assume ogni scena, coincidenza topografica, onomastica, musicale, ogni associazione d’idee suggerita mediante sovrapposizioni di situazioni, volti, ruoli, luoghi, personaggi pregressi e presenti, purché sfasati o non del tutto coerenti, quanto basta per non risultare eccessivamente intellegibili. Cioè a discapito della trama stessa, o per meglio dire delle strane trame, legate tanto a Bobbio quanto all’Italia di ieri, di oggi, immobile, preda dei suoi vampiri secolari. Trame narrative, trame occulte, inutile distinguere le une dalle altre, poiché comunque si avvicendano, si biforcano, si allontanano, si riavvicinano, intersecandosi e accumulandosi pretestuosamente tra passato e presente senza soluzioni di continuità. Collocate in uno spazio riconoscibile, rievocativo, foriero di un’identità, Bobbio, sì. Ciò nondimeno fuorviante. La struttura aperta di Sangue del mio sangue, dove i due episodi, pur condividendo la medesima cornice ambientale, vengono dislocati nel tempo senza però combaciare in termini né logici né cronologici (il primo non fa da premessa del secondo, che a sua volta non ne costituisce la trasposizione al presente), risulta indispensabile affinché prevalga un criterio alternativo e spericolato di svolgimento a monte e di lettura a valle delle immagini. E alternativo vuol dire basato sulla “sincronicità”. Almeno secondo la prospettiva di Bellocchio, specialmente dalla fine degli anni Settanta. Vale a dire, in concomitanza con gravi e determinanti eventi di portata politica nazionale e internazionale, in primis il caso Moro. Lo dimostrano in particolare i tracciati emblematici e sempre sbilanciati tra dimensioni e tempi divergenti, di alcuni dei film cui Sangue del mio sangue rimanda esplicitamente: Vacanze in Val Trebbia (1978-1980), Enrico IV (1984), La visione del sabba (1988), L’ora di religione (2002), Buongiorno, notte (2003), Il regista di matrimoni (2006), Sorelle/Sorelle Mai (2006/1999-2010), Vincere (2009). Attraverso questi film, e non solo, che Sangue del mio sangue riprende e ricuce a suo modo, fa e disfa in continuazione, prosegue insomma un percorso complesso, autoreferenziale, a prima vista labirintico. E con esso un discorso non meno sottile e a tratti, solo a tratti inafferrabile. Siamo con Sangue del mio sangue in presenza di un tracciato lastricato di eventi, dettagli, indizi – attenzione – non sincronici, bensì soggetti al principio ben diverso della «sincronicità», come Jung definiva le «coincidenze significative» anche temporali, sciolte tuttavia dal vincolo della causalità. E non sorprende che alle «coincidenze significative», per ovvie ragioni «a-casuali», si sia appassionato – diciamo così – Giorgio Galli, di necessità molto aperto alle inevitabili suggestioni junghiane e post-junghiane in materia di «sincronicità», categoria particolarmente adatta alle cose italiane, in assenza di verità ufficiali (2). E se uno dei maggiori studiosi del caso Moro e di molti altri concomitanti “passi oscuri” della storia politica nazionale, il politologo Galli per l’appunto, ha riconosciuto l’importanza delle «coincidenze significative», come ignorane l’impatto (in)cosciente su un autore cinematografico che con quegli stessi avvenimenti ha fatto sullo schermo i conti in più di un’occasione, direttamente o allusivamente (3)? La deliberata assenza di nessi logici tra questi due tempi interscambiabili, contigui, paradigmatici, il Seicento e l’oggi, più paralleli che progressivi che Sangue del mio sangue esibisce con ironia e inquietudine, come destini incrociati a prima vista sconnessi, alternando il serio al faceto con assoluta irriverenza, induce a scavalcare l’impianto generale del racconto. E a privilegiare una trama che non è certamente quella esterna, appariscente, immediata. Dunque a cercare tali «coincidenze significative» tra le pieghe della stravagante combinazione o giustapposizione di epoche, eventi e figure reali o fantasmi che si aggirano nel film, rimbalzano da un segmento all’altro indisturbati, restando identici a se stesse o magari mutando posizione e gender all’interno dello scacchiere audiovisivo. Insomma si tratta di intercettare le corde segrete di questa vistosa rimpatriata bobbiese del suo più prestigioso concittadino, virtuoso della messa in scena e in quadro, e mettere nel contempo a profitto qualsiasi conclamata stravaganza che si colloca fuori dalla stretta, coerente e indispensabile economia del racconto: individuare in definitiva l’essenziale nell’opera d’arte, il segreto che si sottrae ma non del tutto all’evidenza, la «cifra» o la «figura», comunque la si voglia chiamare o tradurre, sulla falsariga di uno dei racconti chiave di Henry James, La cifra nel tappeto (4). In rapida sintesi Sangue del mio sangue potrebbe essere affrontato a partire da uno qualsiasi dei numerosi, infiniti elementi sensibili che assembla e sottopone all’attenzione dello spettatore, simile a un puzzle in cui non è dato conoscere il numero esatto di pezzi disponibili o sostenibili. Ad esempio abbiamo scelto di intitolare questo intervento Un coro di fantasmi rigorosamente tra virgolette perché è una citazione dell’ultimo verso con cui Bellocchio chiude la scena dell’estemporaneo canto degli alpini cui si trova ad assistere il vetusto conte-vampiro. Un verso che da solo racchiude il sistema operativo su cui si regge Sangue del mio sangue, popolato com’è di incarnazioni o reincarnazioni di un immaginario cinematografico personale e di tracce indelebili di storie, con l’iniziale minuscola, e della Storia, con la maiuscola, con la quale tale immaginario e la filmografia che lo sorregge stabiliscono un rapporto costante, un «conguaglio continuo», per dirla con Cesare Zavattini. Il ricorso al canto degli alpini, non uno qualsiasi, ma per l’esattezza Sul ponte di Perati, della Brigata “Julia” è quantomeno strategico. Spieghiamoci meglio. È il canto in cui «la meglio zoventù che va sot’tera» aveva già suggerito a Pier Paolo Pasolini la celebre, omonima raccolta poetica del 1954, prima di diventare il titolo dell’altrettanto omonimo film di Marco Tullio Giordana del 2003, che in tema di terrorismo non ha esitato ad adoperare il motivo del tango di Astor Piazzolla Oblivion, già presente – guarda caso – nell’Enrico IV di Bellocchio. Ma le «coincidenze significative» a proposito di Sul ponte di Perati non si esauriscono qui. Il ponte del canto in questione non può non far pensare al Ponte Gobbo di Bobbio, che è l’asse gravitazionale della doppia vicenda, e per la sua felice imperfezione architettonica spiega simbolicamente la condizione del film stesso, sospeso tra due blocchi narrativi diseguali, congiunti da un elemento di raccordo bizzarro, che ne sigla l’impressionante, voluta disomogeneità. Per non parlare dell’asse Pasolini-Bellocchio, che fa scattare ben altra ricorrenza. Infatti Sul ponte di Perati è lo stesso canto intonato a tavola dagli aguzzini di Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975), provocatoriamente o in virtù forse del «bandiera nera» che viene subito dopo il verso inaugurale, mentre il pittoresco personaggio del Presidente, interpretato da Aldo Valletti e doppiato proprio da Bellocchio, si lascia allegramente sodomizzare. Restando, date le circostanze, in silenzio. Altra possibile combinazione è la modalità con cui tornano Anna, Giulia e Maddalena, i nomi femminili ricorrenti usati da Bellocchio nella serie di corrispondenze interne che assumono valenza singolare specialmente alla luce del caso Moro. Ebbene, nessun personaggio in Sangue del mio sangue si chiama espressamente così. Eppure abbiamo un dottor Cav-Anna, cognome del dentista massone, una Brigata alpina “Julia” e un riferimento alla suora/strega Benedetta a «immagine della Maddalena». Tra le tante Maddalene che nella filmografia di Bellocchio assurgono a eroine-contro, la più intransigente è stata la strega di La visione del Sabba. Non per niente la Benedetta di Sangue del mio sangue rimanda in più di un’occasione alla Maddalena di La visione del sabba, la sedicente strega precedente foriera di curiosi riferimenti alla figura della carceriera di Moro: pensiamo alla scena in cui compare legata a testa in giù, alla seduzione pericolosa del suicida Fabrizio e soprattutto del rinunciatario, futuro cardinale Federico Mai, i suoi veri o simulati “confessori”. Ma il nome Benedetta ci riporta anche al primo e più impressionante episodio di La macchina cinema (1979), dal titolo Era San Benedetto, quindi all’indotto di riferimenti ivi contenuti ancora una volta riconducibili al caso Moro. Mentre il cognome Mai, oltre a ricalcare quello dei protagonisti di Sorelle Mai, introduce ulteriori armenti significativi se si prova a far buon uso delle trascrizioni foniche «my», mio, o «may», maggio. E qui ognuno tragga, se vuole, le dovute conclusioni interpretative. Così come è giusto trarle a proposito del tema del suicidio, o del doppio, che riguarda e nel contempo trascende la dolente biografia bellocchiana, per investire l’indotto moroteo. E di cui anche il titolo Sangue del mio sangue, con la sua simmetria lessicale, riferibile alla struttura del film o alla consanguineità, ricorda il drammatico anatema di Moro prigioniero lanciato sull’intero stato maggiore della dc: «Il mio sangue ricadrà su di loro». Timore quest’ultimo, condiviso dal giovane Federico Mai. Per non parlare di altri passaggi lessicali non meno sibillini, che ricordano da vicino il processo brigatista a Moro: il riferimento nell’episodio seicentesco alla «sentenza» attesa dal cardinale che Cacciapuoti reclama, insistendo perché Benedetta confessi; o nell’episodio presente quello alla «base» che potrebbe non condividere le decisioni prese nello studio dentistico dal nucleo ristretto di vampiri-massoni bobbiesi. O ancora l’insistenza sul convento-prigione e la «prigione nella prigione», come Bellocchio ebbe a definire ai tempi di Buongiorno, notte il presunto vano di via Montalcini in cui sarebbe stato detenuto Moro, cui rimanda inequivocabilmente l’angusto spazio all’interno della prigione in cui viene murata Benedetta. Del resto lo stesso edificio in cui si consuma la clausura di Benedetta prima e del conte Basta dopo è ricavato nel convento di Santa Chiara, tenendo conto che il nome Chiara, oltre a essere quello assegnato alla carceriera di Buongiorno, notte, ovviamente, è lo stesso della santa cui è intitolata la chiesa romana in Piazza dei Giochi Delfici, dove Moro ogni mattina alle nove si recava, tanto che inizialmente i brigatisti avevano progettato di rapirlo proprio lì. E che dire addirittura di Benedetta che, indenne e indifferente al tempo trascorso, abbandona con passo lieve la prigione nella prigione? Il collegamento con il Moro immaginario, infine libero nel celebre e controverso finale visionario di Buongiorno, notte, passa attraverso l’immagine della Gradiva di Wilhelm Jensen, riletta da Sigmund Freud, già al centro di L’ora di religione. E che Bellocchio recupera a sorpresa anche in Buongiorno, notte, non più come figura femminile in bassorilievo bensì come icona riconducibile a Moro: «Libero, alla fine, col suo passo leggero, quasi “saltellante”, mi ricorda ora il passo armonioso e leggero della Gradiva. Immagine femminile scolpita nella pietra, movimento immaginario. Immagine maschile impressionata nella pellicola, doppio movimento visibile e invisibile. E parafrasando la domanda finale di Massimo Fagioli nel saggio Una storia una ricerca un film, su Salto nel vuoto: “Ma Anna chi è?” mi domando oggi anch’io, alla fine: Ma Moro chi è?”» (5). Seguendo e concludendo il “ragionamento”, ecco che una connotazione alquanto liberatoria assume anche il finale di Sangue del mio sangue, con la Guardia di Finanza che sopraggiunge all’alba, dopo che i due vecchi paralleli, il cardinale Mai e il conte Basta sono morti nei rispettivi episodi e nelle rispettive epoche cinematografiche in cui si consuma la parabola bobbiese attraversata da «sincronicità» di ogni tipo. Si direbbe che Marco Bellocchio, nel demandare al figlio e alter ego Pier Giorgio il possesso allusivo delle chiavi della prigione, cui poter accedere a propria discrezione o infine decide di gettare nel torrente, onde non cadere più in tentazione, con la parabola di Sangue del mio sangue, film meno autoreferenziale di quanto si creda, abbia voluto chiudere una stagione di fantasmi personali e collettivi. E compiere così un gesto cinematografico assolutamente libero, anzi liberatorio, esprimere un desiderio di catarsi allargata, raccogliendo attorno a sé, nella “sua” Bobbio, attori, parenti e amici, intercambiabili. Compresi i ciechi che ci vedono benissimo, i pazzi che tali non sono. E – perché no? – un musicista e miliardario russo interessato all’acquisto della prigione di Bobbio, intenzionato a trasformarla in un hotel di lusso. Che ai dietrologi, ma non solo, non può non far venire in mente il presunto “grande Vecchio”, ovvero il misterioso compositore e direttore d’orchestra Igor Markevitch (che tra l’altro aveva già ispirato Federico Fellini per Prova d’orchestra [1979]), chiamato in causa dal complicato intrigo di congetture che ha portato studiosi, giornalisti e presidenti di commissioni parlamentari d’inchiesta a interrogarsi sull’ex Villa Odescalchi, divenuto il prestigioso hotel situato sul litorale a nord di Roma come possibile prigione del presidente democristiano rapito e assassinato il 9 maggio 1978.

(1) Carl Gustav Jung, Synchronizität als ein Prinzip akausaler Zusammenhänge, 1952 (tr. it. La sincronicità, Bollati Boringhieri, Torino 1980; 2014, pag. 33). (2) Cfr. Giorgio Galli, Le coincidenze significative. Da Lovecraft a Jung, da Mussolini a Moro la sincronicità e la politica, Lindau, Torino 2010. (3) Cfr. anche per altri passaggi di questa scheda, altrimenti troppo involuti, Anton Giulio Mancino, La recita della storia. Il caso Moro nel cinema di Marco Bellocchio, Bietti, Milano 2014. (4) Cfr. Henry James, The Figure in the Carpet, 1896 (tr. it. La cifra nel tappeto, Nuova accademia, Milano 1964; poi La figura nel tappeto, Sellerio, Palermo 2002). (5) Marco Bellocchio, Buongiorno, notte, Marsilio, Venezia 2003, pag. 9.