CINEFORUM / 560

Scegliere di scegliere, assumere responsabilità

La ragazza senza nome di Jean-Pierre e Luc Dardenne

Di tutti i film dei fratelli Dardenne, La ragazza senza nome è quello che forse ha toccato meno il cuore della critica e soprattutto dei giurati di Cannes. Probabilmente anche i due fratelli hanno avuto dei dubbi, tanto che per l’uscita in sala hanno deciso di modificare qualcosa rispetto alla copia presentata in Concorso all’ultimo festival di Cannes. Piccoli cambiamenti che riguardano in particolare la routine professionale di Jenny, ma probabilmente è la prima volta che i due hanno ritoccato un loro lavoro per l’uscita in sala. Apparentemente il film si palesa come una sorta di inchiesta, una moderna rivisitazione che a molti ha ricordato lo stile scarno e asciutto di Georges Simenon, nato proprio da quelle parti e quindi – in via teorica – abbastanza lontano dal corpus del loro cinema. In realtà, pur allontanandosi nella forma, la sostanza del loro lavoro resta sostanzialmente invariata. Si tratta infatti di un film che malgrado le apparenze, fa un po’ il punto della situazione sul senso di responsabilità etica e morale dell’individuo nell’Europa di oggi afflitta da molte incertezze e difficoltà. In questo senso il Belgio dei fratelli Dardenne sembra essere un perfetto punto di osservazione per tentare di comprendere ciò che accade attorno a noi, una sorta di altra faccia della stessa medaglia su cui aveva lavorato Jaco van Dormael col recente Dio esiste e vive a Bruxelles.

La figura della protagonista di questa inchiesta è anch’essa abbastanza inconsueta nel cinema dei Dardenne. Jenny infatti è una ragazza perfettamente inserita nel tessuto sociale. Non è ricca ma non palesa problemi economici e ha una legittima ambizione ad affermarsi in ambito professionale dove le sue capacità sono al di sopra della norma, come afferma anche il personaggio del direttore del prestigioso centro medico dove lei è attesa, interpretato da Fabrizio Rongione, attore feticcio dei due fratelli. Ma Jenny condivide con le altre donne del cinema dei Dardenne una mobilità quasi schizofrenica e soprattutto una tara, in questo caso segreta, sconosciuta allo spettatore ma che c’è. Si avverte la presenza di un ronzio nocivo e silenzioso che fuoriesce dalla sua mente sempre in attività, seppur non intellegibile e che sembra entrare in risonanza con i rumori delle suonerie del cellulare e del citofono dello studio. Rumori fastidiosi, ricorrenti, che diventano personaggio e cifra del film.

Queste suonerie però celano un segreto, si riferiscono sempre a chiamate di pazienti, loro familiari o del poliziotto che indaga sull’identità della giovane assassinata. Non c’è mai una telefonata o una citofonata ricollegabile a un privato, a una vita di relazione che sia amicale, affettiva o familiare. I Dardenne hanno spiegato questa scelta con il desiderio di concentrarsi solo sul personaggio e sulla sua inchiesta, per evitare sconfinamenti che avrebbero potuto danneggiare l’asse portante della loro visione. Eppure questa giustificazione non convince del tutto perché in realtà sembra suggerire un qualche segreto inconfessabile che affiora dal suo passato, una sorta di cortesia per lo spettatore che lo spinga a costruirsi la sua propria idea del personaggio. Anche il palese contrasto che lei ha con il suo stagista e che porterà alla decisione di non aprire la porta dello studio solo perché è un suggerimento partito dal ragazzo, conferma che Jenny si trova a suo agio solo con i suoi pazienti e la sua professione. Sembra che lei cerchi in ogni modo di impedire la contaminazione nella sua vita con rapporti in qualche modo impegnativi. Lei si assume le sue responsabilità solo nella vita professionale ma le rifugge nel privato.

Quando la dottoressa si trova a guardare il filmato della videocamera di sorveglianza in cui per un piccolo istante compare la sagoma della ragazza alla quale il suo comportamento infantile ha negato una possibile salvezza, la sua vita e le sue convinzioni ne escono frantumate. Jenny a quel punto si trova dinanzi al suo immenso complesso di colpa tipico di una società intrinsecamente cattolica e a riflettere sul concetto di responsabilità personale. In questo complicato tentativo di pacificarsi con la sua coscienza, Jenny cerca onestamente e con grande difficoltà di spogliarsi di quell’habitus comportamentale che l’aveva contraddistinta sino ad allora e di uscire dalla personale torre d’avorio che si era costruita attorno a sé. Se il tentativo di farsi carico di rintracciare l’identità della ragazza per offrirle una degna sepoltura diviene primario, non di meno cerca di riconciliarsi con il suo stagista che aveva più volte umiliato e che quella sera le aveva dato un suggerimento corretto e che lei solo per un dispetto aveva ignorato e calpestato.

Quell’atto in apparenza minimale, quella decisione a prima vista insignificante come tante altre di non aprire la porta dello studio, in realtà filosoficamente e quantisticamente (il battito delle ali di una farfalla eccetera) ha generato nella sua vita e in quelle di altre persone un incontrollabile effetto domino, una serie impressionante di concatenamenti che le stravolgeranno. Una giovane donna muore, un padre di famiglia diventa un assassino, lo stagista decide di abbandonare gli studi e Jenny rinuncia al prestigioso incarico e decide di continuare a fare il medico di base in periferia, e altro ancora. Kierkegaardianamente scegliere di non scegliere è già una scelta ed è ciò che ha fatto Jenny quella sera, e di certo al “filosofo” Luc Dardenne tutto ciò ronzava nella testa mentre contribuiva a scrivere questa storia.

Tutto l’universo e le tematiche del cinema dei fratelli Dardenne, a iniziare dalle comparsate dei loro attori feticcio Rongione, Gourmet e anche Jérémie Renier, le ritroviamo intatte pure in questo film. Ciò che crea disturbo nel critico e nello spettatore è questa inconsueta patina di giallo, che forse i fratelli non riescono a maneggiare con naturalezza. In realtà il giallo e il suo scioglimento sono del tutto marginali e incidentali, diventano solo il pretesto per raccontare, attraverso i tormenti di Jenny, le nostre paure, quelle che ci impediscono di prenderci delle responsabilità e sperare che sia qualcun altro a risolvere il problema che ci si para dinanzi. Però l’inchiesta e l’ossessiva ricerca della verità da parte di Jenny, che talvolta rasenta il fastidio, impediscono un’empatica adesione ai tormenti di quella giovane dottoressa. Rispetto a un altro film importante e per certi versi non dissimile per temi e rigore presente a Cannes in questo stesso anno, ovvero Io, Daniel Blake di Loach, il film dei Dardenne non riesce a saltare lo steccato e a trasferire pienamente le sue emozioni e intenzioni allo spettatore. Anche l’abbraccio finale di Jenny con la sorella della ragazza assassinata non raggiunge la stessa commozione e calore di quelli tra Daniel e Daisy.

Ciò che ci preme però sottolineare di questo film, è l’aver messo in luce il problema spesso celato dei tanti corpi senza nome che vengono ritrovati nei nostri paesi civilizzati e dei quali pochi si occupano. In questo senso la figura di Jenny ci ricorda quella di Cristina Cattaneo, anatomopatologa che da diversi anni, a latere della sua attività didattica e forense con il suo gruppo del Labanof, a Milano e nel suo hinterland dedica una parte importante del proprio lavoro a questa laica missione di affidare un nome a un corpo che non ce l’ha. E non si pensi che siano solo corpi di immigrati clandestini perché in realtà, la maggior parte di essi è di cittadini comuni che decidono spesso di uscire da un cammino di vita che non riconoscono più loro, ed è bello che anche il cinema scopra questo mondo di morti senza nome e che tenti di incrinare quel muro omertoso che è il silenzio degli altri.