CINEFORUM / 565

Se il tempo non fugge

Noi siamo la nostra storia, dice il Kamikaze di Nel corso del tempo. E storia, come Storia, significa in ultima analisi “racconto”. Senza il racconto, la storia non esiste così come senza il tempo il racconto non esiste. Cosa sia il tempo, però, è difficile a dirsi. Tanto più al cinema. Si aprirebbero a questo proposito discussioni senza fine, destinate a perdersi in mille direzioni, tra sussurri e grida di ogni genere. «Effettivamente la questione del tempo è il cuore del mio cinema […] ma in qualche modo sotterranea. […] Credo che la questione riguardi in realtà tutta l’arte e il suo continuo tentativo di afferrare qualcosa del mondo, di tenere una traccia delle cose», dichiara Mia Hansen Løve raccogliendo idealmente il testimone allungatole dal personaggio del film di Wenders. E ci vuole l’arte davvero a maneggiare certe deflagrazioni che la memoria, quando cortocircuita nella riapparizione di oggetti che improvvisamente danno corpo al tempo (al suo passaggio? alla sua inesistenza?), può provocare senza remissione: ce lo mostra Gianni Amelio costringendo il suo personaggio Fabio a confrontarsi con lo choc del ritorno dell’infanzia (della sua infanzia) feticizzato in un “innocuo” giocattolo e con le conseguenze devastanti di questo inaspettato ri/trovarsi.

Siamo alle prese con qualcosa che ci sfugge – da qualsiasi lato lo consideriamo, da qualsiasi lato cerchiamo di afferrarlo per farlo nostro. In fondo il tempo non ci appartiene, nonostante siamo proprio noi a renderlo in qualche modo presente attraverso le nostre speculazioni (vocabolo ambiguo, sì, lo so) che cercano di contenerlo in un concetto il cui profilo finisce sempre per mostrare un punto debole, dove la linea improvvisamente cede e l’insieme mostra a sorpresa la sua implausibilità. «Il tempo messo in scena da Malick è tale che il presente appare contemporaneamente il presente del passato e il presente del futuro: presente, passato e futuro non sono separabili, concrescono l’uno nell’altro – donde la sensazione di una temporalità incerta, difficilmente decifrabile secondo quelle rappresentazioni abituali che conferiscono forza di persuasione alla linearità narrativa convenzionale», scrive Cattaneo: se consideriamo bene queste parole, capiamo che la direzione in cui va il cinema di Malick non è antinarrativa; ci rendiamo conto che il suo progetto non è quello di sabotare il racconto filmico, di ingripparlo e renderlo qualcosa di inutile a priori, ma di reinventarlo torcendo proprio quella “linearità convenzionale” in cui spesso preferiamo trovare rifugio. Noi siamo la nostra storia: siamo noi il presente del passato e il presente del futuro. In Unforgiven, William Munny pronuncia questa frase, più o meno: quando uccidi un uomo gli levi non soltanto tutto quello che ha ma anche e tutto quello che sperava di avere. Parole che – a questo punto è chiaro – non rappresentano soltanto una riflessione morale, ma circoscrivono esemplarmente la questione teoretica della possibilità di raccontare ancora, insieme alle storie che ci attraversano incessanti, la storia che ci riguarda.