Ormai raccontare Napoli come terra senza golfo e senza sole, come sterile sequenza di casermoni umidi e bui, livido inferno dell’oppressione, è diventato un filone, e c’è la possibilità, che contiene anche il suo rischio, che possa diventare un genere, e come tale riempirsi di buona qualità o di mera speculazione. Vincenzo Marra deve aver fatto le sue riflessioni quando ha deciso di riabbracciare la sua terra d’origine, metaforicamente parlando, per quel che riguarda la parte di finzione del suo cinema, dopo due opere ambientate altrove: la prima a Roma, L’ora di punta, del 2007, e la seconda tra la Puglia e il Cile, La prima luce, del 2015. Deve aver pensato ai pericoli del cosiddetto “gomorrismo”, con le trappole debilitanti della maniera e dello stereotipo, quando ha acceso la sua macchina da presa a Ponticelli, per puntarla sulle comunità fragili e impaurite di ogni periferia gestita dalla camorra, dove lo stato Sfreccia veloce qualche volta, ma se sente puzza di bruciato sgomma e scappa e via, lasciando ad altri poteri il compito di organizzare il degrado.
Marra ha superato l’ostacolo mettendo al centro della scena don Giuseppe: un sacerdote che decide di fare sul serio il suo lavoro, di fare il prete fino in fondo, dove è difficilissimo farlo, perché la gente è abituata a soffrire, e certe volte è debole al punto da non saper chiedere aiuto. Perché la miseria, in certi posti, è funzionale al dominio di pochi, e se un boss vuole – racconta Marra nel suo film – può trasformare un raro rettangolino da calcetto in spazio da pascolo per la sua capra: solo apparentemente surreale, solo superficialmente “sfizio”, come spiega il criminale stesso al combattivo parroco, quando in realtà è un promemoria continuo ai ragazzini del quartiere, il refresh di come funzionino le cose in certi sfortunati margini di meridione italiano.
Marra, però, mentre ripete quanto sia dura in certe zone di Napoli – e lo fa con incisività –, nutre un secondo tema che diventa dominante, ininterrotta domanda nel suo film: quali sono il ruolo, il compito e il potere di un prete, oggi? E qual è il senso della chiesa e del cristianesimo, lì, prima di tutto in quella terra dei fuochi, della sfiducia, dell’abbandono scolastico e della disoccupazione? Ma anche – ed è un pregio del film – più in generale, in ogni contesto difficile e per certi versi ovunque? Cosa possono fare di buono un sacerdote e una parrocchia per la gente? Che effettivo sostegno possono offrire alla comunità? Quanto davvero sono disposti a lottare per il benessere del contesto? Impastando efficacemente riflessione religiosa e denuncia sociale, Marra rimette in piedi il suo cinema povero ma bello, inteso come parlante e utile per mettere in moto un pensiero. Costruisce un’opera come ne ha sempre proposte: essenziale, semplice visivamente e asciutta nella forma, ma anche tesa, tosta e amara, senza lieto fine. Non esente da diverse imperfezioni narrative, dovute anche a un budget che si avverte appunto esiguo.
Il don Giuseppe di un Mimmo Borrelli più ricco di movimenti interiori che corporei, ha come modello Cristo, e come lui non conosce il compromesso. Non sa che senso abbia il bicchiere mezzo pieno, né riesce ad annacquare la sua fede con taciti accordi politici. Il suo senso di giustizia e di amore non riesce a coniugarsi con la regola non scritta per cui il dolore va alleviato senza combatterne la causa. Ridurre l’obiettivo significherebbe mancarlo, vorrebbe dire non tendere le braccia ai più bisognosi, ai fragili senza voce e senza muscoli per difendersi. Non è orgoglioso, don Giuseppe, inesperto o impulsivo: semplicemente sa che scendere a patti con quell’ordine delle cose, in quella geenna piena di innocenti dannati, significherebbe voltare lo sguardo dalla violenza sui fanciulli: prima ancora che su quelli a cui è impedito il gioco del pallone in un campetto, sugli sbranati dalla perversione sessuale degli adulti.
«Per me la priorità sono sempre stati i bambini», risponde a chi gli spiega che in certi posti esistono delle priorità, e che è necessario chiudere un occhio su una ripetuta violenza sessuale domestica: è il prezzo da pagare per tenere calmo il sistema vigente, per evitare che quella specie di assurdo equilibrio senza logica, seppure ingiusto e violento, risenta di troppo clamore mediatico che porterebbe problemi e dolorose e sanguinose conseguenze per tutti. Don Giuseppe questo equilibrio non riesce proprio a sopportarlo, anche se sia il prete che lo ha preceduto in parrocchia (il don Antonio di Roberto Del Gaudio), sia il sacerdote suo superiore negli uffici vaticani (Paolo Sassanelli), gli consigliano vivamente di sforzarsi per mantenerlo tale; gli consigliano di usare la testa, il ragionamento, insieme, e forse ancora prima che il cuore. E nessuno dei due religiosi è un manichino di netta bruttezza, un triste rassegnato alla sconfitta o un ignobile corrotto. Portano avanti entrambi, insieme, un punto di vista differente sul da farsi, un approccio più morbido alla delicatissima faccenda, persino più percorribile visto il muro invalicabile contro cui si scontra ripetutamente don Giuseppe, fino a farsi molto male.
Quello degli altri due preti potrebbe essere un cristianesimo sostenibile, più praticabile visto che, come dice don Antonio, «qui l’unica cosa siamo noi» e per rimanerci conviene rispettare le regole, e magari, col lavoro paziente si porta a casa qualche risultato sulla questione dei rifiuti tossici, visto che la criminalità ha fatto altre scelte in fatto di affari; ma sulla droga e su altre questioni, no, conviene non entrare in conflitto, e allora questo cristianesimo forse più compatibile con la realtà diventa anche parziale, dimesso e mesto, e questa contraddizione non fa che aumentare il senso della domanda che percorre e alimenta l’intero film di Marra. Una domanda a cui Don Giuseppe risponde con l’agire prima che con le parole, col suo secco no e con le sue camminate solitarie pedinate da ripetuti piani sequenza; con le sue scelte che non accettano il compromesso, perché se si è fatto prete e ha già lottato come missionario in giro per il mondo (povero), e se ha rinunciato al sentimento per una donna pur di portare avanti la sua ambiziosa scelta di vita, è per la bellezza profonda del pensiero di Cristo, che non si accontenta di qualche successo a fronte di pesanti sconfitte.
Si capisce dalle prime inquadrature che tipo di prete è Don Giuseppe, da prima che egli chieda di tornare a Napoli per spegnere un sentimento di amore pericoloso: egli dialoga con alcuni rifugiati di colore in un centro di accoglienza, comunica nella loro lingua, simbolicamente quella degli ultimi, e riesce a salvarne uno dal suicidio. Poi cammina dentro un corridoio stretto prima di calpestare il marmo lucido e chiaro di un alt(r)o mondo clericale, quello di Roma decisamente luminoso e stabile, per chiedere di andare a vivere la sua missione/passione a casa propria, dove ci si arricchisce uccidendo i giovani con la droga, oppure «si sopravvive con cinquanta, sessanta euro a settimana», spiega un ragazzo proprio a don Giuseppe. Il quale non agisce da eroe, ma da uomo forse prima ancora che da prete, da povero cristo che cerca di amare con azioni faticose e rischiose, che nel dolore e nella solitudine arriva a bestemmiare Dio per un attimo. Il suo modo di incarnare quotidianamente la fede, la sua viscerale applicazione della teoria, la sua profonda e sofferente umanità dilatano ulteriormente la domanda di Marra, iniettandola dentro ogni essere umano, accrescendo di un tassello ancora il quarto, intenso film di finzione del regista napoletano.