CINEFORUM / 570

Ripartire da Harry Lime

È di certo una delle battute più scintillanti della storia del cinema quella pronunciata da Harry Lime/Orson Welles in Il terzo uomo: «In Italia, sotto i Borgia, per trent'anni hanno avuto guerre, terrore, assassinii, massacri: e hanno prodotto Michelangelo, Leonardo da Vinci e il Rinascimento. In Svizzera, hanno avuto amore fraterno, cinquecento anni di pace e democrazia, e cos'hanno prodotto? Gli orologi a cucù».

Dopo aver letto il racconto di Salma Hayek relativo alle aggressioni e molestie subite da Harvey Weinstein durante la lavorazione di Frida e, due giorni dopo, l’articolo di Laure Murat, «Blow Up», revu et inacceptable, pubblicato su «Libération», la battuta – a detta di Graham Greene, inventata direttamente dallo stesso Welles – mi è venuta immediatamente alla memoria. Intendiamoci, il grande cambiamento in atto dopo la rinuncia alla consegna del silenzio che si sta allargando e coinvolge un numero sempre maggiore di donne, costrette (Hollywood soltanto come punta dell’iceberg) a incorrere nelle – e in molti casi a soggiacere alle – prevaricazioni sessuali imposte da chi si ritiene protetto dalla sua posizione di potere, è un evento storico di cui ci si può soltanto rallegrare. L’affermazione provocatoria (e, va da sé, esibizionisticamente ingenerosa nei confronti della cultura svizzera) di Harry Lime può aiutare però a fare un po’ di luce su quell’incerto confine tra la vita dell’opera e la vita (individuale, collettiva) in cui l’opera non può non affondare le sue radici per riceverne sostanza – nel Bene e nel Male, se questa distinzione può avere ancora un senso, dopo Baudelaire quantomeno. Prima che qualcosa sfugga al dovuto controllo.

Una delle affermazioni più rivelatrici della posizione dell’artista nella modernità è che l’opera in quanto tale abbandona immediatamente il suo autore per iniziare, una volta completata, a vivere di vita propria. Lasciata a se stessa, diviene contemporaneamente orfana e generatrice di nuovi mondi, sui quali non è possibile esprimere alcun giudizio morale, se non in un senso molto sui generis. Ciò vale naturalmente anche per il film, in quanto opera d’arte, con tutto quanto ne consegue nel momento in cui passiamo dal considerare i comportamenti criminali di chiunque abbia partecipato in qualsiasi momento alla sua realizzazione al valutare il film in sé. E ciò valga, en passant, anche per quegli interpreti presi nelle maglie (innanzitutto mediatiche finché un regolare processo ne abbia chiarito l’effettiva situazione) di questa epocale resa dei conti: se ontologicamente il film non può esistere senza una realtà da riprendere, registrare e trasformare in simulacro, essi stessi, una volta catturati vivi nell’ambra analogica o digitale dell’immagine, non sono più, se non per l’appunto in sostanza d’immagine. Se lo vedi guardando Il laureato o Cane di paglia o The Meyerowitz Stories, comunque Ceci n’est pas Dustin Hoffman.