Quello di Lars von Trier è un cinema che divide al punto da muovere talvolta i suoi detrattori a reazioni forse un po’ troppo impulsive. Ciò vale anche per il suo ultimo La casa di Jack, la cui uscita non ha mancato di riaprire la polemica intorno all’attitudine manipolatoria del regista danese (ma «nella regia sempre di manipolazione si tratta») e alla gratuità delle sue provocazioni, atte soltanto a sostenere uno sguardo – e dunque un discorso sulla realtà – profondamente immorale. «Cineforum», dal canto suo, anche questa volta preferisce un approccio più ragionato. Collocare il film nella sezione di apertura del numero ci permette di condurne un’analisi articolata, in grado di entrare nel merito sia degli elementi di linguaggio e stile della messa in scena sia delle questioni di contenuto relative ai temi e alle domande di cui La casa di Jack è portatore.
Abbiamo una nostra posizione rispetto al cinema di von Trier, ma non intendiamo proporla con le modalità da stadio (o da social); ci interessa esporla ragionando, analizzando l’oggetto della nostra attenzione e argomentando i motivi delle nostre convinzioni. Riteniamo von Trier un autore importante non soltanto perché in grado di consegnarci un’idea di cinema forte, risultato di una rielaborazione assolutamente personale che non dimentica i modelli importanti cui fa riferimento, ma anche perché ci costringe ad affrontare la radicalità di una posizione, rispetto al nostro mondo, insieme esistenziale e politica: una posizione di condanna senza appello dell’«imbarbarimento che sta avvenendo ora», accompagnata non da appelli di circostanza all’impegno o alla buona volontà ma da una «disperazione rabbiosa e profonda» al cui colpo non possiamo sottrarci. Si tratta di un cinema che cerca – anche sgarbatamente – un pubblico in grado di guardarlo con intelligenza sempre attiva.
Un cinema violento e scostante, che però porta con sé la forza di una provocazione mai fine a se stessa. Il verbo “pro-vocare”, troppo spesso usato a sproposito, è d’altra parte latore di una richiesta rivolta al destinatario dell’azione: quella di una risposta, non necessariamente di un consenso ma di un confronto dialettico che non si rifiuti di considerare nella sua reale importanza la materia del contendere. Così è nel caso del cinema di Lars von Trier e, nella fattispecie, di questo film: rifiutarsi in partenza di riconoscere lo spessore del testo, anche per quanto riguarda la complessa tessitura della sua messa in scena, non ci sembra l’approccio migliore per interloquire a ragion veduta anche su ciò che di esso possa eventualmente risultare indigesto.