CINEFORUM / 584

L'educazione di Rey

Primo lungometraggio di Santiago Esteves, L’educazione di Rey, interpretato da German De Silva e Matías Encinas, è un efficace noir ambientato a Mendoza. Il minorenne Reynaldo, cacciato dalla madre, è maldestramente avviato dal fratello a una rapina in casa di un notaio, condizione che sarà l’inizio di una condizione di fuga. Il fratello e il complice vengono arrestati, mentre Reynaldo, che durante l’incursione fa scattare l’allarme e getta i complici nello scompiglio, scappa finendo nella serra di una famiglia capitanata da una guarda giurata in pensione. Questi, anziché denunciarlo alla polizia, gli propone un patto: non lo denuncia alle autorità pubbliche purché lui ripari quello che ha rotto. Nasce un istintivo legame che è espressione di un racconto intenso, fotografato e diretto con piglio sicuro, con tempi che puntellano una vicenda di interrogativi gettati su questa landa di precarietà sociale e malavita, dove non si conoscono ma si intuiscono soltanto le motivazioni che spingono il pensionato Vargas a fidarsi e proteggere Reynaldo trattandolo quasi come un figlio.

È proprio l’istintivo legame a dare feconda energia a un racconto tutto incentrato sulla tensione che la loro relazione crea. Reynaldo si installa in casa dell’uomo e la vicenda – dove la polizia emerge come profondamente corrotta –, è sostenuta da una narrazione tesa e coinvolgente, in cui Esteves conferma il talento di montatore che avevamo potuto conoscere grazie alla collaborazione per registi come Juan Vilegas o Pablo Trapero. La figura dell’anziano che aiuta il giovane maldestro non è nuova e ci riporta a tanti film di reclute o a western di formazione. Questa volta a convincere è il clima di progressiva trepidazione che il regista riesce a creare attorno a due figure con “buchi” esistenziali che si compensano, nell’occasione di un incontro in cui entrambi possono sperimentare empaticamente la conferma di un possibile percorso: per Vargas avere un giovane a cui affidare il suo talento di tiratore e “salvare” un ragazzo dalla malavita; per Reynaldo avere a fianco quella figura paterna che si discosta dai cliché di tirapiedi e poliziotti corrotti. Senza patetismo né retorica, una volta accettata la situazione di partenza che può anche apparire implausibile, la regia crea tensione nei ripetuti stati di pericolo che Reynaldo vive, e con lui il fratello e la madre.

Personaggi deprivati di alone romantico ma spinti a mettersi in gioco, dove appare persino troppo agile il duello tra Reynaldo e i poliziotti, quest’ultimi un po’ di maniera nel loro essere aguzzini intenti a recuperare il denaro che il ragazzo ha avuto il tempo di trafugare, così come un po’ forzato è l’esito di “pistolero” prospettato al giovane. Tornano i metodi efferati, le torture, in un cerchio che si fa più stretto, condotto da Esteves con abile padronanza della scena. Reynaldo e Vargas non percepiscono subito fino in fondo la pericolosità della condizione che si trovano a vivere, e lo spettatore conosce quasi sempre prima di loro l’entità della minaccia. Ecco allora che l’atteggiamento protettivo di Vargas svela però la consumata abitudine con l’ambiente che il film descrive non mostrandoci mai il lato positivo e salvifico delle forze di polizia come sarebbe potuto succedere in un romantico noir statunitense. Vargas che insegna a sparare a un potenziale delinquente è la figura antiretorica di un’educazione che passa attraverso le regole della strada e che non disdegna di mostrare i lati meno ortodossi e immacolati di una simile educazione.