Dieci inverni raccontava una storia d'amore lunga una decade, un rapporto più mancato che vissuto, alla fine, visto che i due protagonisti si sfioravano senza trovarsi mai davvero. Quel film d'esordio, di ormai quasi dieci anni fa, sintetizzava il lungo tempo di un decennio selezionando dieci momenti soltanto, di diversa durata. Uno per anno: dieci frammenti dentro le fredde stagioni del titolo, appunto. Nel nuovo, visivamente potente, film di Valerio Mieli, il tempo di una storia d'amore viene costruito, invece, attraverso un bollire continuo di ricordi brevissimi, dai lampi interiori, soggettivi, indipendenti, improvvisi e spiazzanti, di due giovani innamorati; dai barlumi fuggenti, a volte inafferrabili, provenienti dalle diverse stagioni della vita dei due protagonisti. Spesso esperienze precedenti al rapporto tra i due, risalenti addirittura alla loro infanzia. Intruse rievocazioni apparentemente immotivate, almeno alcune, ma invece utilissime, alla lunga, per completare il puzzle finale, per motivare la relazione, per determinare la sua nascita e la sua crisi.
Perché in fondo, al contrario di quel su cui discutano i personaggi del film, e cioè che il presente non esiste, ma tutto è sempre passato o futuro, ogni nostro vissuto non si chiude mai definitivamente, ma continua a vivere costantemente in ciò che affrontiamo. Non conta se che quel vissuto sia gioioso o se sia cupo e doloroso, come nel film è il passato del complicato e fragile personaggio di Luca Marinelli, al solito passionale e stravolto, piacevolmente vistoso. Stavolta più dalle parti del Luca di La solitudine dei numeri primi e del Milton di Una questione privata, però, per la complessità invalidante con cui vive la relazione d'amore, che da quelle romanesco criminali di due film diversissimi e belli entrambi come Non essere cattivo e Lo chiamavano Jeeg Robot. Però, è anche sincero e profondo, questo ragazzone tormentato, sensibile e vero fino all'osso. È romantico e poetico, e questo piace da subito, da quella festa notturna su un'isola dal mare azzurro e dalle bianche falesie, a una solare e pacificata giovane dal viso limpido e dai capelli bruni. Felice ma non scema, la definisce lui, tutt'altro, solo capace di vivere, almeno inizialmente, le grandi passioni della vita con serenità, senza eccessiva paura.
Questione di passato, manco a dirlo, anche se il passato sa essere subdolo, e prendersi il suo tempo per far tornare a galla qualcosa di brutto. Questa lei ha il viso dolcemente ovale e il corpo asciutto della non conosciutissima Linda Caridi, e ha un equilibrio che lo scorrere della vita metterà alla prova, inevitabilmente. E cambierà, questa ragazza, cadrà, crescerà, volterà sguardo, vedrà calare sul suo volto chiaro le occhiaie della stanchezza e la serietà dello smarrimento, del cambiamento che passa per certi incontri rari, crocevia determinanti nella vita, nel bene e nel male. Attraverserà le inevitabili tempeste che si scatenano in quel rapporto tra sentimento d'amore e fluire del tempo che compongono finora il binomio centrale, il nucleo vivo del cinema di Valerio Mieli. Stavolta, però, il tempo che interessa al regista non è quello oggettivo, esterno ai personaggi, come era nel primo film, ma quello della nostra memoria, compreso il tempo dedicato, volontariamente o meno – nel controllo o nel passivo subire – a ciò che oggettivamente ci è capitato, che ci ritorna su di colpo, bloccandoci, indebolendoci, perché ci ha colpito e ci ha segnato.
E infatti, il tempo di questo film è selvaggio, pazzo, disordinato, imprevedibile, per niente lineare: è quello dei ricordi, delle loro invasioni nella nostra mente, del recupero e della ricostruzione di una realtà che è diversa per ognuno di noi, anche davanti alla stessa esperienza. Una rielaborazione che non è più solo realtà ma relazione di questa con la nostra condizione, e quindi coi nostri desideri, con le nostre insicurezze, con le nostre necessità che quella realtà possono modificare, e allora anche i ricordi diventano ingannevoli, e vanno presi con cautela. Sono schegge di un tempo doppio, personale, interiore, quelle di Ricordi? che si danno il cambio come e quando dicono loro. Il regista omaggia e adopera questi ritorni alla mente per costruire la sua seconda, faticosa, inquieta, astratta e irrisolta love story. Stavolta tutt'altro che mancata, ma assai più complicata e dolorosa della precedente.
Mieli ricostruisce questa marea di rimembranze con immagini mosse, offuscate, con inquadrature cariche di elementi, con dipinti sfumati in un lavoro poetico sul fuori fuoco, sui colori, sulla musica e sul movimento, costruendo un cinema sinfonico attraverso una miriade di quadri penetranti, suggestivi, estranei ad un contesto sociale, storico e geografico definito. Sono pennellate mai banali, che a volte volano via prima che lo spettatore riesca a raccogliere tutte le informazioni, come del resto sono certi bagliori nella nostra testa. È un guardare di valore, quello offerto da questo film, un continuo fluire di immagini a volte incantevoli, grazie a un lavoro sul taglio e il riempimento degli spazi piuttosto insolito, se non raro, nel panorama italiano. È certamente questo il principale punto di forza di Ricordi? e certifica, indiscutibilmente, il talento visivo del suo autore, qui sostenuto dal doppio lavoro di Daria D'Antonio alla fotografia e di Desideria Rayner al montaggio.
È un film coraggioso, dunque, Ricordi?, ambizioso, rischioso, anche filosofico, per i temi che tocca, ma con le spalle larghe abbastanza per sostenere la sua sfida. Capita, a volte, che la narrazione si incagli, che ci siano ristagni e momenti in cui si fa fatica a stare dietro ai tanti pezzettini di memoria frammentata, ma alla lunga il film non crolla, anzi, riprende vigore e lo sforzo dello spettatore al traguardo è ripagato, perché la storia non è stata sacrificata all'esercizio, al saggio di bravura del regista. Non mancano sequenze capaci di restituire con forza i vari colori di una storia d'amore, le sue tinte luminose e soprattutto, principalmente attraverso il personaggio maschile - che suona sfumature letterarie ottocentesche - quelle più cupe dell'abbandono e delle conseguenze che questo porta, di certe parole secche che entrano in pancia come proiettili e ti dilaniano. In diversi passaggi il dolore dei personaggi è assai credibile, struggente e questo consente di apprezzare ancora meglio l'eleganza visiva di questo film concepito con un coefficiente di difficoltà molto alto. Presentato a Venezia '75, nella sezione Giornate degli Autori, Ricordi? è un film che lavora in modo singolare di sottrazione e di accumulo sul tempo filmico, lasciando addosso un buon sapore, facendo sentire la propria personalità senza rendercela antipatica. E meno male così.